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 2023  novembre 19 Domenica calendario

Amare e odiare John Wayne

Il programma
A John Wayne (1907-1979) è dedicata la rassegna Mezzogiorno di fuoco: 7 film con l’icona del cinema classico americano (nella foto: Hondo di John Farrow, 1953). Il 24 novembre, l’inaugurazione, con Pupi Avati, si terrà alla Reggia di Venaria (in diretta su Hollywood Party, Rai Radio3). Tra gli ospiti del festival: Oliver Stone (che riceverà il premio Stella della Mole), Fabrizio Gifuni, Caterina Caselli, Paolo Conte, Mario Martone... Guardano al cinema di oggi e del futuro le sezioni competitive (i concorsi per film di finzione e documentari, Spazio Italia, Crazies) e no. In programma anche la prima retrospettiva integrale dedicata
a Sergio Citti (1933-2005).
Info su torinofilmfest.it
«Come posso io odiare John Wayne quando sostiene Goldwater e poi amarlo teneramente quando prende improvvisamente in braccio Natalie Wood nella penultima bobina di Sentieri selvaggi?», scrisse Jean-Luc Godard sui «Cahiers du cinéma»: «Mistero e fascino del cinema americano». Erano gli anni Sessanta. Marion Robert Morrison in arte John Wayne, il Duca, era già leggenda. Lo era dal 1939, quando l’amico John Ford in Ombre rosse gli regalò un’entrata da star, anche se lui star ancora non era.
Wayne è magnetico. Sa conquistare anche chi ne critica le posizioni politiche. Conservatore e anticomunista, sostenne la campagna del repubblicano Barry Goldwater nel 1964 contro Lyndon B. Johnson – qui il riferimento di Godard – e quelle di Richard Nixon; la guerra in Vietnam; e, prima, McCarthy e la caccia ai comunisti. Sullo schermo è stato «l’attore che più di chiunque altro ha saputo impersonare il mito americano». È stato amato oppure odiato. Ma anche amato e odiato insieme, come nel caso di Godard. Mistero e fascino del cinema.
La mente degli spettatori riporta alle scene che chiudono Sentieri selvaggi (1956). Il fotogramma con Natalie Wood è stato reinterpretato dall’artista Ugo Nespolo per il manifesto della 41ª edizione del Torino Film Festival, che torna dal 24 novembre al 2 dicembre, sotto l’egida del Museo nazionale del cinema e con la direzione artistica di Steve Della Casa. L’immagine è affiancata dalle parole di Godard (con qualche taglio: niente riferimento a Goldwater). L’omaggio a John Wayne continuerà nella retrospettiva western Mezzogiorno di fuoco. Una delle incursioni nella storia di un festival che tra finzione e documentario guarda al futuro; insieme alla prima rassegna integrale del cinema di Sergio Citti.
A curare le retrospettive è Matteo Pollone, docente di Storia del cinema all’Università del Piemonte orientale: «In un momento in cui ciò che conta sembra essere solo ciò che è fuori dal testo, quella di Godard è una lezione su come si dovrebbe guardare il cinema», dice a «la Lettura»: amo Wayne per quello che vedo nei film. La rassegna torinese porterà sul grande schermo sette film interpretati dall’icona immortale del cinema classico: dal primo che lo vide protagonista nel 1930 — Il grande sentiero di Raoul Walsh —, fino alla sua ultima apparizione nel 1976 — Il pistolero di Don Siegel – poco prima della morte, per un cancro, nel 1979. «Classici del genere, che però il pubblico di giovani studenti di Torino potrebbe non conoscere». Non ci saranno le pellicole più note Ombre rosse, Sentieri selvaggi, Il Grinta... Della Trilogia della cavalleria di Ford sarà mostrato I cavalieri del Nord Ovest (1949), dove l’attore quarantenne, aiutato dal trucco, è un ufficiale prossimo alla pensione che impedisce la guerra con gli indiani. La scena in cui parla con la moglie morta innaffiando i fiori sulla tomba è una tra quelle che per Steve Della Casa hanno contribuito a fare di John Wayne un mito: «Se il western è stata l’ultima grande forma di epica collettiva e se sta all’America come l’Iliade stava all’antica Grecia, Wayne è Achille. Solo vederlo salire a cavallo dispensa grandi emozioni, e poco importa che cosa pensasse del Vietnam. Avreste chiesto ad Achille cosa avrebbe votato alle elezioni?».
La rassegna mostra «come funziona il divismo, come è nato e cresciuto il mito di John Wayne, ancora oggi uno dei divi più riconoscibili di quella stagione», continua Pollone: «Aveva un carisma indiscutibile, una presenza magnetica; dava un’idea di forza e controllo in situazioni estremamente pericolose. A farne una leggenda fu il sodalizio con John Ford»: 21 film nell’arco di 36 anni.
Il viaggio di Torino nel cinema di John Wayne parte da Il grande sentiero di Walsh. Il primo ruolo importante, in un film ambizioso che però fu un tale flop da relegare il genere e Wayne alla serie B, fino a Ombre rosse. Si procede con Il fiume rosso (1948) di Howard Hawks – con Ford e Henry Hathaway, uno dei registi di cui John Wayne più si fidava. Poi Hondo (1953) di John Farrow. Film scelti per «dare uno spettro della versatilità del divo»: così Pugni, pupe, pepite (1960) di Hathaway, commedia di cercatori d’oro, ne fa emergere il lato più ironico.
Ironico John Wayne lo fu nella vita, anche a proposito delle proprie opinioni politiche. Quando nel 1974 fu invitato dagli studenti di Harvard in «territorio ostile» per difendersi dall’accusa di essere – lui, simbolo della mitologia americana – «il più grande impostore della storia», si presentò a bordo di un carro armato. Accolto dalle proteste, riuscì poi a far ridere tutto l’auditorium. Nel 1971 aveva rilasciato un’intervista a «Playboy», che, con le sue affermazioni omofobe e denigratorie di neri e nativi americani, è tornata virale nel 2019. E nel 2020, sulla scia del movimento Black Lives Matter, è stata rimossa un’esposizione che il suo ateneo, la University of Southern California, gli aveva dedicato ed è stata avanzata la richiesta (non accolta) di togliere il suo nome dall’aeroporto di Orange County in California.
Ci fu chi, come Montgomery Clift, convinto liberal, che debuttò al fianco del Duca ne Il fiume rosso, rifiutò di recitare in Un dollaro d’onore (1959) per non incontrarlo di nuovo. Ma in generale, sottolinea Pollone, gli attori amavano lavorare con Wayne: «Nella vita privata fu impeccabile. Kim Darby, attrice del Grinta (1969), nonostante le remore iniziali raccontava l’esperienza come fantastica». E celebre è lo scambio di battute sul set de I cowboys (1972) con Bruce Dern, volto della New Hollywood e primo attore ad uccidere John Wayne in un film: «Ti odieranno», scherzò il divo. «Sì, ma a Berkeley sarò un eroe», rispose Dern riferendosi alle proteste degli studenti contro Wayne, che scoppiò a ridere.

È negli anni Sessanta che John Wayne diventa la quintessenza del western. Il suo mito è tale da potersi permettere di girare con John Ford I tre della Croce del Sud (1963; si vedrà a Torino) solo per farsi una vacanza nei mari del Sud: «Un film di scazzottate e ubriacature», scrive Della Casa. «Ma i razzisti fanno una brutta fine».
«Come interprete, John Wayne ha dato forma a personaggi che ricercano la pace con gli indiani, come ne Il massacro di Fort Apache o I cavalieri del Nord Ovest», prosegue Pollone; ma anche all’Ethan Edwards di Sentieri selvaggi: «Ambiguo, scuro, paranoico». Nell’ultima parte della carriera «continuò a proporre lo stereotipo fordiano in film molto classicheggianti. Mentre la New Hollywood ripensava i generi, parlava all’America che voleva vedere i film come si facevano una volta». Qui il cinema e le posizioni ideologiche si sovrappongono: «Quando raggiunge il pieno controllo sulla propria personalità divistica, tende a incarnare figure più stereotipate come il Davy Crockett de La battaglia di Alamo (1960), il primo dei due film da lui diretti, apologia dell’eroismo americano; mentre il secondo, Berretti verdi (1968), è apertamente a favore della guerra nel Vietnam... Lo stesso vale per i film diretti da altri, come Chisum (1970, di Andrew McLaglen), il preferito di Nixon, in cui arriva persino a tradire le premesse del genere».
L’ultima apparizione sullo schermo John Wayne la fece in un western malinconico, Il pistolero, che mette in scena la fine del mito del West. «Il western classico era il mito americano per eccellenza, con tutte le sue ambiguità. Come ambigue furono le tragedie greche o le opere di Shakespeare», chiude Pollone. Il pistolero ha un cancro terminale, la stessa malattia che ucciderà l’attore. Per ripercorrere il passato del personaggio il montaggio che attinge alla filmografia di Wayne: Il fiume rosso, Hondo, Un dollaro d’onore, El Dorado. «Persona e personaggio sono la stessa cosa». Nel mito del cinema.