La Lettura, 19 novembre 2023
Classifica dei ct della Nazionale
Pozzo contava su fenomeni come Meazza, Ferrari, Piola. Valcareggi poteva scegliere tra Rivera e Mazzola, un’abbondanza che alla fine gli si ritorse contro. Bearzot credeva in Rossi così ciecamente da aspettarlo al termine dei due anni di squalifica per il calcioscommesse (e anche dopo le prime tre partite del Mundial). Sacchi doveva gestire Baggio e fu una specie di rodeo, con la caduta sul più bello. Che dire di Lippi e dell’ultima generazione d’oro dei Totti, Del Piero, Pirlo e Gattuso. Conte contava ancora su Buffon, Bonucci e Chiellini. E gli ultimi due mohicani della tradizione difensiva italiana hanno vinto l’Europeo con Mancini. La sensazione nell’ultimo periodo c’era già, ma adesso con Spalletti è diventata una certezza: il vero campione della Nazionale, lo stellone a cui affidarsi nei momenti bui, è proprio il commissario tecnico. E non è esattamente una buona notizia.
È comunque un punto di (ri)partenza, perché i ct nella storia del pallone azzurro hanno spesso fatto la differenza. Uomini forti, soli nella bufera, capaci di mettere al centro l’uomo, prima ancora del giocatore. E di creare così una compagnia, una brigata, un piccolo manipolo di ragazzi dove la somma finale è sempre stata più elevata della somma dei singoli talenti: ingrediente fondamentale per arrivare al risultato – dato che i Mondiali vinti sono 4 e i campionati europei 2 – o per sfiorarlo, come nelle finali perse con il Brasile (1970 e 1994) e contro Francia, a Euro 2000 con Zoff, e Spagna, a Euro 2012 con Prandelli. Dai canti alpini con cui Pozzo motivava le due Nazionali che hanno fatto scuola negli anni Trenta, al discorso di Roosevelt letto da Vialli, alter ego del ct, prima della finale di Wembley 2021. Dal silenzio stampa del Mundial spagnolo con Zoff taciturno portavoce, al «noi contro tutti» lippiano nell’estate di Calciopoli, della testata di Zidane a Materazzi e dell’ultima Coppa del Mondo alzata al cielo: chi avrebbe mai pensato che quella con la Francia del 9 luglio 2006 sarebbe rimasta l’ultima gara azzurra a eliminazione diretta in un Mondiale per (almeno) vent’anni?
Quando i Mondiali prendono vita a Montevideo il 13 luglio 1930 senza l’Italia, il tenente Pozzo ha già iniziato il suo terzo mandato, metabolizzato la lezione inglese e messo le basi per il gioco all’italiana attraverso il Metodo, con due difensori centrali, contrapposto al Sistema. Nel 1912 questo torinese con il culto del travail come ricordava Giorgio Bocca, giocava ancora nel Torino, ma fu nominato commissario unico da una équipe di giornalisti dirigenti e giocatori. Era l’alba del nostro calcio, Pozzo accettò, a patto di farlo gratis, continuando a lavorare alla Pirelli. Sulla sua gestione il sole arrivò al picco nei due Mondiali vinti nel 1934 e nel 1938 e il piccolo capolavoro dell’Olimpiade 1936, con Frossi, Rava e altri studenti calciatori: tramontò solo nel dopoguerra, all’Olimpiade di Londra, con le dimissioni indotte il 5 agosto 1948 dopo l’eliminazione per mano della Danimarca.
Qualche mese dopo, la notte arrivò d’un tratto, con la tragedia di Superga (4 maggio 1949) e a Pozzo, che continuava a svolgere l’attività di giornalista per «La Stampa», toccò lo strazio di riconoscere i corpi dei suoi ragazzi. Quando morì, il 21 dicembre 1968, il minuto di silenzio non fu osservato su tutti i campi per un malinteso tra Lega e Federazione, indice forse di un malessere legato all’accettazione del fascismo da parte del ct, che i documenti rivelati da «la Lettura» #608 del 23 luglio scorso hanno contribuito a fugare definitivamente. A lungo però quei due Mondiali vinti sotto Mussolini rimasero lì, come un soprammobile ingombrante. Nel 1982 si aggiunsero alla terza stella, dando una luce nuova al percorso di un movimento che nel 1970 si fermò solo davanti a Pelé e alla staffetta più discussa.
A rileggere quello che venne scritto prima e durante la spedizione spagnola, viene da chiedersi fino a che punto potesse arrivare la capacità di incassare di Bearzot, che chiamavano il «Vecio», ma nella notte del Bernabeu aveva 55 anni, uno in meno di Mancini a Wembley. Per Mario Sconcerti «è stato il primo tecnico europeo che abbiamo avuto in Italia» perché come tecnico federale il suo mestiere era guardare il calcio degli altri: anche per questo la sua squadra più bella è stata quella di Argentina 1978, ma quella imbattibile fu frutto di un compromesso, con le marcature a uomo di Gentile su Maradona e Zico o di Cabrini su Kaltz in finale contro la Germania Ovest, quando venne schierato un difensore in più (Bergomi) per l’infortunio di Antognoni. Perché i tempi cambiano, ma a volte sono i ct a cambiare i tempi.
Sacchi interruppe la lunga stagione dei tecnici federali(ma non i rimpianti per Italia 90 e le notti magiche con Vicini): selezionare però è un’arte diversa, non c’è quasi mai il tempo per seminare e aspettare il raccolto. Anche se ci sono solo i rigori di Pasadena a confermare la regola, un’altra volta dopo Napoli con l’Argentina di Maradona (semifinale, 3 luglio 1990). E non sarebbe stata nemmeno l’ultima, dato che toccarono in sorte anche a Maldini contro la Francia (3 luglio 1998).
Spalletti è arrivato dopo le montagne russe di Mancini: miglior risultato degli ultimi 15 anni, con l’Europeo rivinto a 53 anni dalla prima volta e il peggior risultato di sempre, con la seconda assenza di fila a un Mondiale, dopo il flop del 2018 con Ventura (ma almeno lui uscì con la Svezia e non con la Macedonia del Nord). Solo 5 sono i ct che hanno vinto (Pozzo, Valcareggi, Bearzot, Lippi, Mancini), solo 3 hanno bucato l’appuntamento più atteso: Mancini ha sperimentato tutte e due le sensazioni, fortissime, ravvicinate, fatalmente legate. E tutto considerato, l’anomalia era quella felice.