La Lettura, 19 novembre 2023
Il poeta latino Lucfrezio, irregolare, incontrollabile
Lucrezio lo aveva detto. Poi vennero mille e quattrocento anni di oblio, una lunga congiura del silenzio, perché aveva annunciato al mondo «cose inaudite», tanto rivoluzionarie da meritarsi le maldicenze di san Girolamo (che lo dipinge come un povero pazzo suicida per amore), l’accusa di empietà da parte dei cristiani, ma anche lo sdegno dei contemporanei latini. Meno accomodante in fatto di politica del suo maestro Epicuro, l’autore del De rerum natura nel I secolo a.C. smontava infatti tutti i luoghi comuni del tradizionalismo romano, la religione di Stato, i culti pagani, gli intrighi di potere, la falsa arte divinatoria. Un irregolare incontrollabile, e imperdonabile.
Con la sua immaginazione libera era volato oltre le fiammeggianti mura del mondo, spingendo ai limiti la visione della mente. Ce lo racconta così, con trasporto e scrittura incalzante, l’insigne latinista Ivano Dionigi, già rettore dell’Università di Bologna fino al 2015, nel libro L’apocalisse di Lucrezio (Raffaello Cortina). Un’apocalisse (cioè rivelazione) riletta due millenni dopo. Lo studioso pesarese torna così alle origini dei suoi studi, alla tesi di laurea in Lettere classiche a Bologna, dedicata proprio a teologia e religione in Lucrezio ed Epicuro.
Cercando negli antichi anticipazioni del sapere contemporaneo si corre sempre il rischio dell’anacronismo, ma il poema lucreziano sembra fare eccezione, perché è davvero una chiave di lettura perfetta per il presente, al punto da chiedersi stupefatti quale ardita mente possa averlo concepito. L’antenna razionalista lucreziana capta il sentire della nostra epoca ed è ancora controcorrente. Lucrezio ha il futuro nel sangue. Ce ne siamo accorti durante la pandemia, rileggendo la tragica chiusa del poema – la peste di Atene – con i balbettii dei medici e dei sacerdoti, lo strazio di non poter dare il commiato ai propri cari. Lucrezio lo aveva già scritto, descrivendo il contrasto fra l’arroganza umana e la marginalità della nostra presenza nel cosmo, la perdita di ogni antropocentrismo, la vulnerabilità che ci accomuna a tutti gli altri esseri viventi.
Dionigi descrive il sentire cosmico di Lucrezio, per il quale tutto è in trasformazione, nei cicli infiniti di aggregazioni e disgregazioni, e tutto è in relazione, il grande e il piccolo, partecipando ogni cosa della stessa natura: atomi e vuoto. Questa visione laica diventa sacrilega quando sfida ogni limite e concepisce la pluralità di innumerevoli mondi possibili, di terre abitate da altre creature, dentro un universo infinito, senza centro e con la circonferenza in ogni dove. Gli dèi sono andati in pensione, indifferenti alle sorti umane, e l’umanità è solo un frammento brulicante del dramma universale. I principi costitutivi della realtà, in Lucrezio, non sono più regolati né da un dio né dalla mano umana, ma fissati dalla natura stessa, grande, autonoma, regina di sé.
Molto interessante è la corrispondenza, in Lucrezio, tra atomi e lettere, tra cosmo e poema, un tema che Dionigi aveva già iniziato a esplorare nel fortunato Lucrezio. Le parole e le cose (Patron editore) del 1988. Il De rerum natura è una cattedrale verbale di più di 7 mila versi, che rivela una «mostruosa regolarità», quasi da cristallo, da poliedro con migliaia di facce, per usare una metafora che lo scrittore russo Osip Mandel’štam applicò alla Divina Commedia. Proprio al parallelismo tra Dante e Lucrezio è dedicata l’appendice del libro, dove Dionigi presenta le affinità elettive tra i due «poeti del cosmo», entrambi visionari, cantori dell’invisibile, senza protettori, apolidi, entrambi scultori di una lingua nuova.
Da una raffinata analisi delle figure stilistiche, Dionigi fa emergere l’organicità del capolavoro lucreziano: le simmetrie, le concatenazioni, le ripetizioni testuali, i neologismi (tra gli altri: infinito, clinamen) necessari per annunciare l’assoluta novità di una filosofia emancipatrice. Lucrezio applica alle cose le proprietà delle parole: il cosmo ha un codice grammaticale, scrittura dell’universo e scrittura del poema sono convertibili. Cinque principi sintattici accomunano la natura e la lingua: incontri; movimenti; ordine; posizione; forma. Ad essi si aggiunge il clinamen, la deviazione impercettibile degli atomi, per evitare il determinismo e dare un senso alla libertà.
Ne deriva una concezione combinatoria della formazione dei corpi e delle parole: gli elementi di fondo sono sia parole sia atomi, le cui aggregazioni danno origine rispettivamente al linguaggio e al mondo. Si crea dunque un’osmosi tra ordine fisico e ordine linguistico, che piacque molto a Italo Calvino, che vi vedeva la dimostrazione di come la scrittura possa essere sintassi e modello della realtà. Lucrezio quindi non è uno scettico. Crede nella leggibilità del mondo. Primo Levi gli invidiava proprio questa fiducia forte nell’esplicabilità dell’universo. La natura è un libro: possiamo leggerlo con la grammatica in Lucrezio; con la fede in Dante; con la matematica in Galileo.
Fa parte di questo ordine del mondo anche «la legge del due», spiega Dionigi, cioè la presenza continua in Lucrezio di polarità che rimandano a vita e morte, luce e tenebre, Venere a Marte, vagiti della nascita e pianti del funerale. Si tratta di una legge invisibile e invincibile, che non ci condanna però al nichilismo, ma al piacere di illuminarla con la luce della ragione, abbracciando serenamente la natura delle cose, arrendendosi al vero e combattendo i falsi idoli. Un altro insegnamento – rivolto indistintamente a tutti come era tradizione fra gli epicurei – giunge dritto da Lucrezio a noi: per uscire dai guai del nostro tempo, scrive Dionigi, dobbiamo unire il profeta della tecnica Prometeo, con tutte le ambivalenze del progresso umano che Lucrezio seppe intravedere, e il profeta della sapienza umanistica, Socrate.
Risvegliato dal suo sonno millenario da Poggio Bracciolini nel 1417 nell’abbazia di San Gallo, il De rerum natura disvela le due grandi piaghe che generano l’infelicità tra gli umani. La prima è lo smodato attaccamento alla vita, che si manifesta nella nevrosi del potere economico e politico, nella volontà di dominio sull’altro, nelle sofferenze d’amore. La virtù contemplativa si raggiunge mettendosi al riparo mentre gli altri naufragano nella navigazione della vita, inseguendo affanni illusori e provvisori trionfi. La seconda piaga è la paura della morte, che è vana perché se c’è lei non ci siamo più noi; perché prima che nascessimo è già esistita un’eternità senza di noi; perché tutto è destinato a finire e la morte in fondo è una forma di giustizia, è lasciar spazio agli altri, preludio a nuove vite.
Lucrezio lo aveva detto, due millenni fa, con furia iconoclasta e poetica. Viviamo su un granello insignificante del cosmo eppure ce lo contendiamo con il ferro e il fuoco, ferocemente intenti a conquistare un’aiuola. Non c’è alcun Inferno da temere nell’aldilà. L’inferno lo costruiamo noi, nell’aldiquà, con la paura e l’ignoranza, fomentando le somme stoltezze dell’odio e della guerra.