La Lettura, 19 novembre 2023
Varoufakis vuole che ci impossessiamo collettivamente della rete
«Servi della gleba, proletari e vassalli del cloud di tutto il mondo, unitevi! Non abbiamo nulla da perdere se non le nostre catene mentali». Così Yanis Varoufakis riformula nel suo nuovo libro Tecnofeudalesimo (La nave di Teseo) il famoso appello di Karl Marx. Alla fine del Manifesto del Partito comunista (1848), il grande filosofo tedesco si rivolgeva ai proletari di tutti i Paesi, oppressi dalle robuste catene (di acciaio) del primo capitalismo. Perché resuscitare l’espressione «servi della gleba»? Chi sono i vassalli del cloud e che cosa incatena oggi le nostre menti? Inscenando una immaginaria conversazione con il padre, nel libro Varoufakis illustra con invidiabile chiarezza e una scorrevole scrittura la transizione dal capitalismo a una nuova forma di economia, definita, appunto, tecnofeudalesimo. In un interessante tecno-dialogo su internet, ho chiesto all’autore di chiarire la sua tesi, situata a cavallo fra economia e filosofia.
Perché abbiamo bisogno di un nuovo concetto per descrivere l’economia contemporanea? Non bastavano quelli di turbo-capitalismo o capitalismo delle piattaforme?
«Come diceva Simone Weil, per cogliere una realtà che tende a nascondersi dobbiamo coniare espressioni originali, anche servendoci di parole vecchie. Il capitalismo si affermò all’inizio dell’era moderna, quando riuscì a sostituire l’economia basata sulla rendita. Nel regime feudale, i “signori” erano riusciti a impadronirsi di una risorsa comune, la terra, e accumulavano ricchezza trattenendo buona parte del raccolto dei servi della gleba. Si trattava di un sistema statico, incapace di innovare. A poco a poco, una nuova classe sociale iniziò a utilizzare i mezzi di cui disponeva (il capitale, appunto) per creare merci da vendere direttamente nelle piazze (i primi mercati), traendone un profitto. Ci sono voluti secoli, ma questo nuovo modo di produrre si è evoluto sempre di più, trionfando sulla rendita e diventando uno straordinario motore di ricchezza. Negli ultimi due decenni, tuttavia, il capitalismo si è progressivamente trasformato, soprattutto grazie alla rivoluzione digitale. Continua a produrre merci, ma il suo ruolo principale è quello di controllare e modificare i comportamenti delle persone, intrappolandole dentro nuovi feudi virtuali (come Amazon o Instagram), dai quali estrarre rendite sempre più ingenti».
Nel libro lei descrive questo cambiamento epocale con un efficace espediente retorico. Suddivide la transizione in quattro fasi, ciascuna rappresentata emblematicamente da altrettante «figure»: Don Draper, il Minotauro, Alexa e... il «claudalista». Ce le illustri una per una. Chi è Don Draper?
«È un personaggio della serie televisiva Mad Men, disponibile anche in Italia. Draper lavora per un’azienda americana, è un tipo strano e imprevedibile, trascorre lunghe ore sdraiato sul divano del suo ufficio. Ma ha il dono di trasformare qualsiasi prodotto in un oggetto di intenso desiderio da parte dei consumatori. Se un mediocre hamburger mangiato in un fast food viene presentato in televisione come un’occasione per riunire la famiglia il sabato sera, si stimola in chi guarda la formazione di una nuova esigenza emotiva, che alimenta le vendite. Draper cattura una nuova fase evolutiva del capitalismo post-bellico, la scoperta di un nuovo mercato: quello delle nostre attenzioni, da stimolare ed espandere fabbricando nuovi desideri».
Passiamo al Minotauro.
«Questo mostro mitologico aveva una fame insaziabile di carne umana. Per tenerlo buono, il re di Creta Minosse faceva arrivare ogni tanto una nave piena di giovani da Atene, e consegnava il suo tributo umano al Minotauro. Un rituale feroce, che consentì però a Creta di estendere la propria rete di commerci. Nel passaggio al nuovo millennio, dalle viscere dell’economia americana, e in particolare dal suo crescente deficit commerciale, è nato un nuovo Minotauro, affamato di manufatti europei ed asiatici e soprattutto di capitali finanziari per alimentare Wall Street. Con l’aiuto dei computer, è stato creato il mercato dei derivati, che hanno consentito ai finanzieri di moltiplicare i loro azzardi. Nel 2002 il reddito totale dell’umanità si aggirava intorno ai 50 mila miliardi di dollari. Nello stesso anno, i finanzieri di tutto il mondo avevano investito 70 mila miliardi in varie scommesse in Borsa. Cinque anni dopo, l’ammontare di queste scommesse era salito a 750 tmiliardi di miliardi di dollari: una follia. La finanziarizzazione del capitalismo ha potuto avvenire grazie alla deregulation promossa dal neoliberismo, che ha aggredito anche sindacati e Stato sociale, causando crescente diseguaglianza e precarietà».
Molti (compreso suo padre, nel libro) pensavano che internet sarebbe stata il tallone d’Achille del capitalismo. Un nuovo bene comune, liberamente accessibile per tutti, avrebbe ridato potere ai consumatori e consentito loro di scardinare monopòli e tecnostrutture.
«Non è andata così. Internet ha partorito una nuova forma di capitale, concentrato in un numero sempre più esiguo di individui. Io lo chiamo capitale cloud, il quale ha dato vita, appunto, al tecnofeudalesimo».
Dobbiamo ancora parlare di Alexa.
«Giusto. Sempre più persone conoscono questo simpatico dispositivo pronto ad accogliere i nostri comandi. Se per te che l’hai acquistata Alexa è un devoto assistente virtuale, per i tecno-feudatari è invece un minuscolo ma fondamentale ingranaggio in una vasta rete di potere basata sul cloud. Di fatto, il cloud non è altro che un fittissimo network di fibre ottiche e computer sempre più intelligenti, capaci di apprendere tramite algoritmi. Ciò che interessa a chi controlla il cloud è acquisire una conoscenza sempre più dettagliata delle nostre preferenze e abitudini. Mentre chiacchieriamo al telefono, Alexa ascolta; quando le chiediamo un servizio, lei immagazzina l’informazione. Dopo un po’, inizia a fornirci consigli per influenzare le nostre scelte. A mano a mano che l’algoritmo di Alexa impara, facendo cose per nostro conto, diventa capace di condizionare il nostro comportamento. Naturalmente non c’è solo Alexa. I motori di ricerca e le app fanno la stessa cosa».
Chiaro. Ora ci spieghi chi sono i tecno-feudatari o, come lei li chiama anche, i claudalisti.
«Sono i proprietari delle nuove reti cloud come Amazon, Google, Alibaba e così via. Come gli antichi feudatari, si sono impadroniti di un bene comune, internet, spezzettandolo in vari spazi virtuali (i nuovi feudi) da cui traggono rendite gigantesche».
Da chi le traggono, esattamente?
«Da tutti noi: navigando su internet, forniamo gratis e senza accorgercene i dati di cui gli algoritmi hanno bisogno per influenzarci (che cosa compriamo, con chi chattiamo e così via). E poi da tutti coloro (compresi i detentori di capitale tradizionale, come un’azienda che produce beni) che sono interessati a entrare in contatto con noi per proporci le cose più disparate. Per vendere su Amazon, un operatore deve lasciare alla piattaforma fino al 40% del ricavo. In altre parole, i claudalisti estraggono valore dal lavoro degli altri senza doverlo remunerare. Chi usa le piattaforme contribuisce gratuitamente alla loro riproduzione e all’incremento della loro rendita».
Si tratta pur sempre di un mercato, i consumatori scelgono.
«In realtà noi scegliamo da un menu di opzioni predeterminato dai claudalisti. Il mercato è uno spazio di interazione, qualcosa di molto più articolato di una sequenza di transazioni mediate da algoritmi. Se due persone cercano lo stesso tipo di prodotto su Amazon, l’algoritmo propone a ciascuno cose diverse, calibrate in base ai dati individuali di cui dispone. Nella piattaforma possono entrare solo i venditori che ne accettano le condizioni. I claudalisti estraggono una doppia rendita: le informazioni che regaliamo noi e il dazio versato da chi vuole intercettarci a fini commerciali. Per riprodursi e crescere, il capitalismo tradizionale doveva fare investimenti e remunerare i dipendenti. Il capitalismo cloud prospera sfruttando le attività degli altri, senza pagarle ma anzi facendosi pagare».
Non le sembra però esagerato sostenere che il tecnofeudalesimo stia rimpiazzando il capitalismo basato sulla produzione di beni e servizi reali? Dopo tutto, sono proprio beni e servizi che noi compriamo su Amazon.
«Ci sono due risposte. La prima è che il capitale cloud sta accumulando sempre più potere sul capitale tradizionale. Più che una sostituzione, si tratta di una subordinazione. La seconda è che la formazione del capitale cloud è stata alimentata dal lungo ciclo di denaro facile, di moneta stampata dalle banche centrali dopo che scoppiò la bolla dei derivati. Invece di alimentare investimenti e rilanciare la crescita, questo denaro ha salvato gli intermediari finanziari, mentre ai governi si è chiesta austerità. Il Minotauro ha provocato una crisi economica e sociale di proporzioni inedite, che ha sottratto reddito alle fasce più povere e depresso la domanda aggregata».
Nel primo semestre del 2015 lei fu ministro delle Finanze in Grecia in un periodo molto difficile. Immagino che si sia trovato a fronteggiare proprio il Minotauro.
«Infatti. La Troika ci chiedeva austerità per prestarci euro che il giorno dopo sarebbero andati a finire nelle tasche delle banche».
D’altra parte i precedenti governi del suo Paese avevano accumulato un debito pubblico enorme, nascondendo la vera entità del deficit alla Ue.
«D’accordo, ma la ricetta della Troika avrebbe strozzato l’economia greca e ridotto in povertà gran parte della popolazione. Avevamo nelle nostre mani un’arma potentissima: rifiutando la proposta della Troika, sarebbe saltato l’euro. Persino i cinesi erano terrorizzati da questo scenario».
Alla fine, lei si è dimesso e Tsipras ha accettato. La Grecia ha recuperato terreno e l’euro si è salvato.
«Ha vinto la santa alleanza fra il Minotauro e l’austerità. Una vittoria che ha spianato la strada al tecnofeudalesimo».
Alcuni studiosi raccontano un’altra storia. Il risanamento dei conti pubblici ha evitato la bancarotta fiscale, senza distruggere il welfare state. Molti Paesi hanno anzi incrementato la protezione dei ceti più deboli (pensiamo al reddito minimo, anche in Grecia) e i cosiddetti investimenti sociali. In risposta alla pandemia, la Ue ha emesso debito comune per sostenere la disoccupazione (programma Sure) e ha lanciato il programma Next Generation Eu. Dodici anni dopo la crisi del debito sovrano, il welfare pubblico continua ad assorbire più di un quarto del Pil...
«Sono meno ottimista di lei. I servizi pubblici soffrono ancora di un forte deficit di risorse, in alcuni Paesi si stanno privatizzando, con un significativo declino di qualità per gli utenti».
Nell’ultima parte del libro lei solleva la «domanda killer» che potrebbe farle un critico: se non ti piace quello che abbiamo, con che cosa lo rimpiazzeresti? Rifacendosi a quanto già detto in un suo volume precedente (Un altro presente, La nave di Teseo, 2021), lei non si sottrae alla sfida di delineare la sua visione. Provi a riassumerla.
«Naturalmente si tratta di una riflessione speculativa. Come a suo tempo Marx, anch’io penso che un progetto alternativo concreto possa nascere soltanto dalla presa di coscienza e dalla mobilitazione degli oppressi di oggi. I pilastri portanti della mia visione sono la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, la libertà personale, lo spazio per il pensiero innovativo e il progresso tecnologico e, sì, la vera democrazia».
Una nuova forma di comunismo?
«Piuttosto una nuova tecno-democrazia, in cui tutte le decisioni rilevanti siano prese da gruppi di cittadini selezionati casualmente (o dei lavoratori, nel caso delle imprese). Non ho in mente il socialismo reale: resterebbe il mercato, liberato dal flagello della rendita e dei monopoli di potere. Nelle imprese, alla retribuzione di base verrebbe aggiunto un bonus determinato dal voto degli stessi lavoratori-azionisti, in base alle loro valutazioni sui contributi individuali alla produzione. Le rendite del cloud sarebbero spazzate via attraverso due strumenti: l’attribuzione a ogni società di un punteggio di “valore sociale” da parte di una giuria democratica (un basso punteggio potrebbe portare alla cancellazione della società); il divieto di cessione di servizi “gratuiti”. Una piattaforma di micro-pagamenti, unita a una nuova Carta dei diritti digitali, restituirebbe a tutti noi la scelta di quali dati vendere a chi (gli sviluppatori di app). Inoltre, a ciascun cittadino verrebbe fornito un portafoglio digitale gratuito, sul quale sarebbe accreditato un dividendo di base».
Un reddito universale incondizionato, insomma.
«Sì. Questa misura rivoluzionerebbe il nostro modo di pensare al lavoro, al tempo, al valore, liberandoci dall’oppressiva equazione morale di lavoro pagato e virtù».
Sono certo che, da buon economista, lei abbia valutato le compatibilità macro e micro-economiche della sua visione di tecno-democrazia. Come risolvere però il noto rischio di tirannia delle maggioranze? Non tutte le questioni si possono risolvere con il voto. Men che meno quelle che riguardano la sfera dei comportamenti privati, del riconoscimento delle differenze, della tutela delle minoranze. Quanto liberalismo resterebbe nella tecno-democrazia?
«Tutto il possibile. Mi sono sempre definito un marxista libertario. La tecno-democrazia fornirebbe ogni garanzia all’individuo liberale».
Mi fa piacere. Anche per Marx il comunismo sarebbe stato il regno della libertà. Per arrivarci bisognava però passare attraverso la dittatura del proletariato.
«Su questo concetto si è fatta molta confusione. Marx considerava la società capitalistica come una dittatura della borghesia. La dittatura del proletariato era un espediente concettuale per caratterizzare il periodo della transizione».
Resta il fatto che per Marx nella società comunista sarebbero scomparsi per incanto sia la volenza sia il disaccordo e dunque i conflitti. Lo Stato si sarebbe estinto e la politica sarebbe stata sostituita dalla semplice «amministrazione delle cose». Questo perché il comunismo avrebbe portato la condivisione dei fini e l’era dell’abbondanza. Anche accettando queste due irrealistiche aspettative, sarebbe comunque rimasto il problema della scarsità, che riguarda altre risorse oltre ai beni materiali, come ad esempio il tempo.
«Su questo sono d’accordo. Ripeto: la mia tecno-democrazia non sarebbe comunismo. E non la considero neppure un’utopia».
Ma come pensa di arrivarci?
«Con ciò che suggerisco nella frase conclusiva del libro, da lei già richiamata. Per avere una qualche possibilità di rovesciare il tecnofeudalesimo dobbiamo riunire non solo il proletariato tradizionale e il proletariato del cloud, ma anche i suoi “vassalli”, coloro che versano il dazio per accedere alle piattaforme. Si tratta di incentivare una grande ondata di mobilitazione contro il cloud servendosi del cloud. Pensiamo al danno che si potrebbe infliggere ad Amazon se a uno sciopero dei suoi magazzinieri si unisse una coalizione abbastanza ampia di utenti che rinunciasse per qualche tempo ad andare sul sito».
Un piccolo sacrificio per liberarci dalle famose catene mentali.
«Esatto. Per riprendere possesso individuale delle nostre menti dobbiamo possedere collettivamente il cloud. È l’unico modo in cui possiamo trasformarlo da mezzo per controllare il nostro comportamento in strumento per favorire la collaborazione e l’emancipazione sociale».