Tuttolibri, 18 novembre 2023
L’allegria di Joanne Harris
Quando Joanne Harris appare sullo schermo via Zoom, hai la conferma di ciò che traspare leggendo i suoi libri, solare e sorridente. Dal Who’s Who avevo tratto altre informazioni: donna di 59 anni a cui piace «scroccare, oziare, pavoneggiarsi, strimpellare, adescare preti e sovvertire tranquillamente il sistema». Ma le piacciano anche la slealtà, la ribellione, la stregoneria, la rapina a mano armata, il tè e i biscotti e lo champagne rosa. Lavora in un capanno in giardino, suona nella band in cui è entrata a 16 anni e vive con il marito in un boschetto nello Yorkshire.Il successo planetario nel 1999 del suo terzo libro Chocolat, scritto quando era ancora insegnante in un liceo, divenuto film da Oscar con Juliette Binoche, Johnny Depp e Judi Dench, ha cambiato la sua vita ma non lei. Il suo nome è entrato nell’elenco esclusivo degli autori che hanno sorpassato il milione di copie di un unico titolo (in Uk solo altre quattro donne: J K Rowling, Helen Fielding, Kate Mosse e Victoria Hislop). Da allora ha scritto altri 19 romanzi, varie novelle, molte sceneggiature, un musical, tre libri di cucina. Sul seguitissimo account X il 24 agosto ha postato una foto con il marito Kevin: «Ore 11 di mattina di 34 anni fa. Io in un vestito da 20 sterline, K con un abito comprato all’usato, nessun ospite, solo due testimoni e addobbi floreali lasciati dal precedente matrimonio. Una sola fotografia: questa. Ancora insieme. Ancora felici». Eccola, è lei. Un ritratto perfetto di come è ancora oggi. Bisogna avere la leggerezza nel cuore per scrivere, diceva Raffaele La Capria. E Joanne Harris ce l’ha. I capelli stanno ricrescendo dopo un tumore al seno e indossa un maglione pesante, dal disegno nordico. Il che mi fa pensare che sia nel capanno in fondo al giardino della sua casa nello Yorkshire.Virginia Woolf diceva che una donna per scrivere deve avere una stanza tutta per sé, lei invece ha un capanno tutto per sé…«Niente capanno, lì non prende bene Internet. Sono in casa, Ma è verissimo: è importante avere uno spazio tutto per sé, che ti dia l’idea di andare a lavorare, anche se è a pochi metri di distanza dalla casa. Aiuta molto».L’emancipazione delle donne è un problema che le sta a cuore. Sempre su X posta foto di pubblicità sessiste degli anni Cinquanta e Sessanta.«Mi pare che siamo ancora in una società molto patriarcale. Anche se le donne sono statisticamente la maggioranza della popolazione sono ancora percepite come una minoranza e penso che si debba parlarne e raccontarlo».Il suo ultimo romanzo “La prima bugia” è ambientato in una scuola maschile tipica della vecchia Inghilterra. Per la prima volta in 500 anni la rettrice è una donna che rompe la tradizione e apre la scuola anche alle ragazze.«Vengo da una famiglia di insegnanti e io stessa ho insegnato in una scuola di quel tipo per 15 anni. Ero una delle quattro donne in uno staff composto di uomini anziani, che non amavano le e-mail, le lavagne bianche. C’era una forte resistenza verso tutte le novità e ovviamente le donne erano una novità. La scuola è un ambiente che conosco bene ed è un ambiente interessante, pieno di storie, l’elemento umano e la dinamica che si sviluppa sono altrettanto interessanti. Mi piace raccontare le comunità e specialmente cosa accade quando arrivano persone nuove».Questo attaccamento alla tradizione sembra un po’ lo specchio della società britannica.«Certo. Le persone vengono formate in queste scuole e ce ne sono ancora molte che funzionano come quella che io descrivo. Anche se lentamente elementi di modernità si fanno largo. In verità anche nelle scuole private di eccellenza non c’è così tanta eccellenza, ma piuttosto ci si maschera dietro la difesa della tradizione. La vera differenza, nelle scuole, la fanno gli insegnanti».Rebecca Buckfast, la nuova rettrice, è un personaggio riuscitissimo. È la cattiva e fin dalla prime pagine dichiara di avere commesso due omicidi. Chi legge sta comunque dalla sua parte.«Perché è una donna che ha un grande buco nel suo passato, è una persona danneggiata ma reagisce. A modo suo, ma è una vincente. Quindi credo che chiunque si possa identificare nella sua lotta».Lei è anche la presidente della Società degli autori britannica, il sindacato. In America alcuni autori stanno facendo causa ad OpenAi per ChatGpt. Cosa pensa della minaccia dell’Intelligenza Artificiale sul lavoro creativo?«C’è preoccupazione. Stiamo provando a instaurare un dialogo più trasparente con gli editori e anche con chi utilizza l’AI. Molti strumenti dell’intelligenza artificiale sono stati addestrati a creare usando il lavoro dei creativi, lavoro che non è stato riconosciuto né pagato. E alcuni stanno perdendo il lavoro, per questo. Per esempio, gli illustratori. È molto facile creare illustrazioni con l’AI seguendo un certo stile. Anche i traduttori stanno perdendo il lavoro, perché certi editori usano l’AI per tradurre e ai traduttori rimane solo la revisione e quindi sono pagati meno. La media di questi tipi di lavoro è scesa sotto il salario minimo. E i creativi non hanno modo di combattere da soli contro queste pratiche. Non diciamo che non si debba usare l’AI, ma che non deve sostituire la creatività umana».Si riesce a vivere scrivendo libri nel mondo anglosassone? Si potrebbe pensare che scrivendo in inglese e con tutte le piattaforme oggi a disposizione, si abbia una platea di pubblico molto vasta.«Dipende da cosa scrivi. Molti non si guadagnano da vivere scrivendo libri. La media è di 11mila sterline all’anno. E quindi la maggioranza ha un altro lavoro. C’è un grande spreco di talento, il denaro disponibile va sempre nelle stesse tasche e si promuovono autori che hanno già successo e non aiuta la diversità e la conoscenza di altri che meriterebbero».Lei ha anche scritto il saggio “Dieci consigli di scrittura”. Ne scelga uno.«Deve piacerti quello che stai facendo. Ho incontrato plotoni di persone che dicono di voler fare gli scrittori. Parlandoci poi scopri che pochi lo vogliono davvero, quello che desiderano è frequentare persone famose e fare molti soldi e pensano che questo sia un sistema per farlo. In verità devi amare molto la scrittura: è un mestiere difficile, è difficile entrare, essere accettati. Si ricevono un sacco di rifiuti prima di venir pubblicati. Seguire le mode e cercare di fare molti soldi non è certo la maniera giusta».Lei cosa preferisce: stare nel capanno o in giro per la promozione?«Girare è stancante, ma è anche piacevole viaggiare per il mondo, vedere luoghi, incontrare lettori. Creare connessioni con il mondo esterno è necessario per nutrire la creatività. Quello che io amo di più è stare nella capanna a scrivere. Questo è il mio lavoro».Margaret Atwood dice che l’unica cosa che uno scrittore deve fare è scrivere. Concorda?«Io cerco di scrivere tutti i giorni. Ho un obiettivo di trecento parole. Con trecento parole al giorno alla fine dell’anno hai finito la prima stesura. In genere la mattina faccio una corsa e poi mi metto a lavorare. La mattina per me è più prolifica. Ma scrivere non significa stare seduti a un tavolo per ore. Continuo anche quando faccio una passeggiata all’aria aperta, incontro persone e tutte queste cose nutrono la mia scrittura perché non smetto di pensare e spesso faccio più progressi che stando nel capanno. Posso scrivere anche due libri alla volta».Due alla volta?«Certo. Ci sono libri che ho scritto in quattro mesi, altri in dieci anni. Ci sono fasi in cui lavoro a un progetto che poi si interrompe e passo a un altro e poi lo riprendo: sono processi strani, difficile codificare. Bisogna scrivere ciò che si sente in quel momento».Lei è una maestra nel raccontare gli odori e i profumi. La candeggina negli spogliatoi, la cera e il gesso in certe aule. Dove nasce questa abilità?«Io elaboro il mondo principalmente attraverso i colori e i profumi perché soffro di sinestesia, che è una condizione neurologica per cui associo gli odori ai colori, in pratica io annuso i colori. Il mio primo senso è l’olfatto, quindi spesso uso gli odori e i profumi per descrivere cose. Molti scrittori usano descrizioni visuali e qualche volta uditive, ma non molti usano l’olfatto e il gusto, che invece per me sono importanti per creare un’immersione più tonda per il lettore».Parliamo di Woke e Cancel Culture. Lei cosa ne pensa?«Penso che sia un termine inventato dai media per descrivere qualcosa che è sempre esistito. Solo che oggi Internet amplifica il fenomeno. Penso all’antisemitismo di Dickens, per il quale fu così criticato da costringerlo a far leggere i suoi scritti a un amico ebreo per togliere le allusioni antisemite».Molti scrittori oggi si sentono intimoriti da scrivere qualcosa che possa offendere categorie o dire cose per cui verranno attaccati. Sente questa pressione?«No. Io so di avere delle opinioni che possono non piacere a qualcuno, ma non posso cambiarle perché penso che non piaceranno. Quando scrivo non penso alle reazioni che ci saranno. Se scrivo che una ragazza è grassa, non è bodyshaming, è un modo per descrivere un personaggio e dobbiamo raccontare anche la diversità. Se scrivo che una ragazza è grassa e quindi pigra e stupida, allora è un altro discorso, e dice qualcosa del modo in cui tu percepisci una categoria di persone. Quello che va evitato sono gli stereotipi».