Tuttolibri, 18 novembre 2023
Donato Carrisi e la paura
«Io sono un narratore di paure». Si definisce così Donato Carrisi, l’autore italiano di thriller più venduto al mondo, 50 anni e quasi 5 milioni di copie. Anche in quest’ultimo L’educazione delle farfalle tiene il fiato sospeso fino all’ultima pagina: è la storia angosciante di una bambina scomparsa durante un campus invernale in Svizzera, una madre degenere, un piromane scombinato e un’inquietante «festa delle fate farfalle» che si conclude con il rogo di uno chalet. «Paura e amore sono i due sentimenti base dell’essere umano – dice lui – le prime cose che impariamo da bambini».
Per questo nelle sue storie i bambini compaiono sempre?
«Certo, perché i bambini siamo noi. Io parlo al bambino nascosto dentro il mio lettore. La verità è che le paure dell’infanzia non scompaiono con l’età. Non le abbiamo dimenticate, non le abbiamo superate. Loro sono sempre lì, e ci aspettano. L’infanzia e la morte sono le uniche cose che accomunano gli esseri umani, anche i più diversi. Tutti siamo stati piccoli. Tutti lasceremo questo mondo».Lo sguardo dei bambini sulla realtà è diverso?«Credo che i bambini siano gli unici a vedere certe cose. Perché magari conservano una sorta di cordone ombelicale che li lega ancora al mondo misterioso da cui tutti proveniamo e a cui siamo di nuovo destinati dopo la morte».Perché vogliamo avere paura?«Perché è un’esperienza catartica, guardare in faccia le paure ci aiuta a riconoscerle. C’è una bella frase di Nelson Mandela: “Un giorno la paura ha bussato alla mia porta, il coraggio è andato ad aprire e non ha trovato nessuno”. Ecco perché leggiamo libri di paura: perché offrono una spiegazione, cosa che nella vita reale non accade quasi mai. E in questo modo impariamo a scacciarla».Lei è pauroso o coraggioso?«Io di mio sono un fifone, sono spaventato un po’ da tutto. E le mie paure sono quelle più comuni. Mentre stavo ultimando il romanzo a giugno mio figlio, 8 anni, è partito per il campo scuola in montagna e sono andato nel panico. Ho pensato: “Oddio, sono proprio un cretino, me le vado a cercare"».La madre della storia, almeno inizialmente, è perfida. Come l’ha costruita?«Ho intervistato molte persone che non volevano essere madri o perlomeno rivendicavano una libertà di scelta. In realtà il personaggio mi è venuto in mente anni fa, quando stavo per diventare padre per la prima volta. Io non avevo mai desiderato figli miei, ho un sacco di amici più vecchi con figli (soprattutto figlie) e mi vedevo benissimo nei panni dello zio onorario».Cosa è successo poi?«È successo che un giorno a Roma, nel pieno del successo, un’amica mi ha trascinato per scherzo a farmi leggere le carte e la cartomante mi ha predetto “lei non avrà mai figli”. A quel punto il tarlo mi è entrato in testa, forse per spirito oppositivo, chissà. Poi ci sono anche tornato dalla cartomante – dopo essere diventato padre – e quella ha ritirato fuori le stesse carte. Forse era una tattica che usava con tutti, non so...»Padre e madre sono intercambiabili?«Non credo, no. Tra padre e madre la figura fondamentale è quella della madre. Le madri dei miei due figli maschi, che oggi hanno 8 e 3 anni, sono entrambe fondamentali. Descrivere questa madre era un po’ pareggiare i conti con lo strapotere materno...».La madre odiosa pian piano evolve, alla fine ci si affeziona quasi.«Sì, perché diventa più disponibile a fallire. I nostri contemporanei sono in difficoltà a gestire il fallimento, preferiscono i rimuoverlo. Anche per la mia protagonista la paura più grande è quella del fallimento poi, quando le capita ben di peggio, impara a capire che fallire può anche essere un atout. D’altronde se non ti succedono le cose brutte non puoi neanche vedere quelle belle. Serena cresce non appena smette di stordirsi per non sentire l’angoscia e inizia a cercare la verità. È una che deve inciampare nelle cose per vederle».È così che diventa detective?«Non proprio, lei non diventa una detective, segue il suo istinto, non la logica alla Sherlock Holmes. Non è una storia di detection pura, è una storia di scoperta di se stessi. Tutti i personaggi in realtà evolvono: il piromane si redime, il poliziotto sembra svogliato e invece si dimostra acuto. Il problema del nostro tempo è che giudichiamo troppo in fretta le persone, attribuiamo subito delle etichette, mentre l’essere umano è in continua evoluzione».Colpa dei social?«Non lo so, forse è anche un portato dei social, credo che ci sia in generale una mancanza di complessità nell’osservare gli altri e le situazioni. È un momento strano della nostra storia, c’è molta mala fede. Anche nell’insistenza sul politically correct, che diventa un’arma per giudicare gli altri in modo rigido, quasi fanatico. Scrivendo o dirigendo un film si è continuamente costretti a scansare certe trappole».Mi fa un esempio ?«Va bene usare un linguaggio inclusivo, ma bisognerebbe pesato soprattutto i comportamenti. Io ho fatto mille battaglie a favore della comunità Lgbtq+ ma certi eccessi mi spaventano. Tendiamo a semplificare, a vedere tutto in bianco e nero».Eppure il giallo è il genere per eccellenza che traccia un confine tra bianco e nero, bene e male, no?«E infatti io non scrivo gialli ma thriller. Il giallo mette in scena il bene che combatte contro il male, ha bisogno di chiarezza e logica, di sezionare la realtà, offrire spiegazioni e finire con il trionfo del bene. Nel thriller, sopratutto nell’ultima generazione di noir che vanno sempre più a fondo nei meandri della mente umana, non è necessaria la logica, ci vuole il caos. Voglio far scendere i lettori di un gradino verso l’inconscio. Nel thriller la storia non finisce mai con l’ultima pagina. E può anche vincere il cattivo».Come nella vita?«Certo, e comunque va detto che nella vita anche i buoni a volte vincono ingiustamente».Non mi dica adesso che tiene per i cattivi?«No, ma ammetto di subire il fascino del cattivo. Ho fatto la tesi di Giurisprudenza in criminologia sul “mostro di Foligno” Luigi Chiatti ed ero affascinato da quello che diceva. Allo stesso tempo mi sentivo sporco e mi chiedevo: cosa c’è che non va in me, perché sono attratto dal male? Poi mi sono reso conto che Chiatti non parlava mai della sua infanzia e allora ho capito che lì c’era il buco nero della sua sofferenza e ho iniziato a provare compassione per il mostro, non a giustificarlo ma a guardarlo come un essere umano».Che le è rimasto degli studi di Giurisprudenza?«Sono stati fondamentali per la mia formazione, è una scuola meravigliosa di esercizio di sintesi e di esattezza nei concetti e nelle parole. In giurisprudenza una parola non vale mai l’altra. E poi in fondo quello del diritto è il massimo retaggio dei nostri antenati latini. Una costruzione intellettuale magnifica, il diritto anglosassone, ammettiamolo, non è neanche lontanamente all’altezza, è basato sulla fuffa».Non lo dica a Perry Mason! E pensare che la sua Milano di grattacieli somiglia molto a New York...«Non proprio, no. Milano è unica nel suo genere, la città bassa e la città alta sono davvero due mondi diversi, come non accade nemmeno a New York. A Manhattan ti capita di vedere la vecchietta multimilionaria vestita da barbona uscire dal grattacielo con tanto di concierge e farsi un caffè all’angolo in ciabatte. A Milano dal grattacielo la sciura non scende mai in ciabatte».A meno che non siano griffate... Lei ormai oltre che scrittore è anche affermato regista. Cosa la appassiona di più, i libri o i film?«Sono talmente collegate le due cose... Amo sia scrivere che dirigere, in fondo sono diventato scrittore perché nessuno voleva girare le mie sceneggiature. L’unica cosa di cui sono sicuro è che non voglio dirigere serie tv».Non sono il linguaggio della nostra epoca?«Sarà anche così, ma nei film il regista ha l’ultima parola, nelle serie tv no. E io preferisco rovinarmi con le mie mani. E poi le serie sono prolisse, si sviscera troppo, mentre per me bisogna lasciare qualcosa di non detto nelle storie. Per questo non voglio nemmeno assolutamente diventare uno scrittore seriale. Non mi interessa sedermi su un personaggio, preferisco ogni volta sfidare me stesso e il lettore».Il lettore però a volte ama ritrovare il personaggio noto, una sorta di comfort food, no?«Mi spaventa quel tipo di dipendenza che si crea dalle cose conosciute. Una volta un lettore mi ha detto “io sono calabrese e leggo solo romanzi ambientati in Sicilia”. Ma si può? La lettura e il cinema dovrebbero trasportarti altrove».Lei dove ama farsi trasportare? E da chi ?«Amo Stephen King, da anni, gli darei il premio Nobel. E Cormack McCarthy, impagabile narratore. Umberto Eco, con Il nome della rosa è stato il primo autore italiano di thriller. Per quel che riguarda i film, mi sono formato con i thriller Anni 90, Il silenzio degli innocenti che mi ha cambiato la vita, e poi Seven e I soliti sospetti, Stanley Kubrick e naturalmente Sergio Leone. I primi passi li ho fatti con il produttore esecutivo di Sergio Leone».La più grande lezione imparata?«Che la fantasia e la creatività non bastano. Ci vuole impegno, lavoro, fatica, precisione: quando descrivi un luogo devi conoscerne l’odore. Io sono un pignolo, un perfezionista, ossessionato dai dettagli. Sul mio set tutti devono conoscere la sceneggiatura, anche il macchinista o l’addetto alle luci o il costumista».Meglio girare in gruppo o scrivere da solo?«È vero solo in parte che il cinema sia un’opera collettiva e scrivere libri un esercizio solitario. Il rapporto con l’editore di fiducia è fondamentale – tant’è che non l’ho mai cambiato – si forma quasi una mente collettiva intorno alle storie. D’altronde Stephen King lavora assiduamente con i suoi collaboratori, quella di Ken Follett è addirittura una bottega rinascimentale, come per la costruzione delle cattedrali che racconta. Le storie sono la nostra casa comune: tutti noi abitiamo le storie che siamo stati e che siamo, quelle che raccontiamo e ci raccontiamo».