Corriere della Sera, 17 novembre 2023
Borgese il non allineato
Un estimatore di Giuseppe Antonio Borgese come Luigi Baldacci si chiedeva retoricamente, nel 1995, perché mai ci volesse Parigi per riscoprire Rubè, il primo (e maggiore) romanzo del critico-scrittore siciliano. Succedeva che il francese Frédéric Vitoux, recensendo su «Nouvel Observateur» la traduzione appena apparsa Oltralpe, si era spinto a definire quel libro come «uno dei più grandi romanzi della letteratura italiana o semplicemente della letteratura del nostro secolo». Affermazione forte persino secondo Baldacci, il quale considerava Rubè «più una testimonianza d’intelligenza che un risultato d’arte». Ora non c’è da chiedersi come mai in questi mesi viene riscoperto alla grande lo scrittore e critico di Polizzi Generosa, che Sciascia ammirava invece senza riserve per ragioni sia civili (l’antifascismo) sia letterarie. Non c’è da chiederselo, perché essendo morto, settantenne, nel 1952, Borgese è caduto fuori diritti e così tanti editori, meritoriamente, si sono precipitati a pubblicarlo producendo una sorta di curioso e inatteso ingorgo.
Ecco dunque il doppio ritorno di Rubè, grazie alla Bur per le cure di Antonio Rosario Daniele (introdotto da Elvira Seminara) e grazie a BITeS (Biblioteca Italiana Testi e Studi) per le cure di Giovanni De Leva. Ma sembra Elisabetta Sgarbi la più convinta fautrice di Borgese, se nel giro di un anno La nave di Teseo ha riproposto l’ambizioso manifesto politico scritto in America (e rimasto inedito in italiano) Fondamenti della Repubblica mondiale, con prefazione di Sabino Cassese, e Golia, presentato da Francesco Merlo: «Sull’Italia fascista, un libro di radicale importanza», lo definì Sciascia. E ora arriva, sempre a bordo della nave di Teseo, il progetto più ampio, confluito in un volume di oltre mille pagine che contiene Romanzi e racconti a cura di Gandolfo Librizzi. Dove, come spiega Salvatore Ferlita nella prefazione, troviamo un’ampia varietà di prove narrative: le stesse che fecero alzare il sopracciglio a chi, considerando Borgese essenzialmente un critico saggista editorialista (sulla «Stampa» prima, sul «Corriere» dopo), snobbava sommamente il narratore fino ad arrivare al rifiuto.
Rivelatosi tardivamente sul piano creativo, appunto con Rubè nel 1921, Borgese dispiegò tutte le sue forze narrative nel giro di un decennio, fino al 1933, in cui uscì la raccolta di racconti Il pellegrino appassionato che concludeva la sua carriera di prosatore. Quella che ora viene proposta nella sua essenziale peculiarità: l’essere decisamente fuori dalla temperie letteraria del proprio tempo, specie nel rappresentare una sfida alla «melassa vociana e rondista» (Ferlita). È certamente questa una delle ragioni che decretarono la rimozione di Borgese (in primis lo scrittore) da parte della cultura italiana. Vent’anni fa è stato Massimo Onofri a spiegare quanto il suo isolamento sia stato non solo di ordine politico: Borgese fu infatti tra i pochi che non giurarono fedeltà al regime, per cui dovette abbandonare la cattedra universitaria e riparare negli Stati Uniti nel 1931. Isolato anche in quanto partigiano di un liberalismo non allineato, sempre più distante da Croce e del tutto alieno al marxismo. Ma si trattava anche di un’estraneità più profonda in nome di una visione filosofica molto ampia, cosmopolita, sensibile soprattutto alla cultura tedesca. Non a caso, tornando al narratore, se c’è un nome a cui lo scrittore Borgese è stato spesso avvicinato è il Pirandello del Fu Mattia Pascal o quello de I vecchi e i giovani (l’accostamento è sempre di Onofri, in chiave di una «lacerante controstoria» italiana).
Il programma
L’intento dell’autore siciliano è raccontare
al di fuori di ogni preziosismo stilistico
Rubè è un intellettuale acceso dal desiderio di impegnarsi ma dimidiato e frustrato dal suo stesso solipsismo, un eroe predestinato al fallimento, interventista spaventato dalle bombe, amante modesto, «martire per equivoco» (Baldacci), fratello degli inetti di Svevo e padre degli indifferenti di Moravia, autore che fu, come Soldati e Piovene, tra le scoperte del Borgese critico militante. Opportunamente, Ferlita ricorda che un lettore finissimo come Geno Pampaloni unì Svevo, Pirandello, Borgese e Moravia entro la «famiglia laica del romanzo italiano», dove l’aggettivo dà conto dello smarrimento di fronte ai miti eroici e decadenti del tempo tra le due guerre, ma anche dell’intento di raccontare al di fuori di ogni preziosismo stilistico, cosa insolita nell’Italia dell’epoca: Borgese è esplicito fautore di un nuovo «tempo di edificare» anche auspicando (e praticando) un ritorno al romanzo, che interpretava quale prodotto specifico della letteratura siciliana recente (Verga innanzitutto, ovviamente).
Il bello del volume è nel proporci, per la prima volta, l’insieme della narrativa di Borgese, nei suoi sviluppi diseguali e sorprendenti, per di più come detto compressi entro un solo decennio. Il percorso non è lineare, dunque tanto più interessante. Due anni dopo Rubè, arriva I vivi e i morti, sempre un romanzo della crisi e dell’indifferenza, ma in chiave privata: focalizzato non più sulle implicazioni storico-politiche che agitano l’individuo ma sul suo intimo intrico affettivo-familiare, e forse anche per questo fu accolto dalla critica con minor tiepidezza del primo. Al centro, un altro intellettuale, Eliseo Gaddi, e un rapporto conflittuale con il fratello che si risolve in un gigantesco senso di colpa e in una regressione nell’alveo materno. Un libro tutt’altro che trascurabile, che apre agli scenari psicoanalitici, cari non solo a Svevo ma anche al grande e troppo trascurato Federigo Tozzi. Nel 1925 ci si imbatte in un altro Borgese, ancora diverso dai precedenti, quello de La tragedia di Mayerling: un documentatissimo storico-reporter investigativo che ricostruisce, rendendola in forma romanzesca quasi da pioniere del new journalism, la drammatica vicenda dell’arciduca Rodolfo d’Asburgo, trovato senza vita nel suo castello il 30 gennaio 1889, insieme con l’amante Maria Vétzera. Una storia «tragediabile» di misteri e passioni, pubblicata e ripubblicata fino a superare, come annunciato nella copertina di un’edizione tascabile Mondadori 1966, le centomila copie.
Fa bene Librizzi a sottolineare la novità del genere prescelto e a evocare, a tale proposito, una significativa dichiarazione riferita da Borgese al suo Golia: «Se vogliamo capire Mussolini, questo strano protagonista della storia contemporanea, bisogna esaminarlo con il terzo metodo, con l’occhio di un buon romanziere». La consapevolezza del critico-narratore è davvero eccelsa e gli permette di sperimentare anche il verso e la drammaturgia, oltre alle molteplici tastiere romanzesche. Come quella che nel 1931 lo porta a comporre il romanzetto breve Tempesta nel nulla, autobiografica passeggiata interiore ambientata tra le montagne dell’Engadina, dove quanto più spiccano le incantate descrizioni del paesaggio segantiniano tanto più la storia si fa esile e misteriosa, quasi a smentire l’ispirazione dei romanzi precedenti. E infine, tutti da leggere, ci sono i racconti, per lo più rapidi scorci di quotidianità familiare o paesana, resi in uno stile snello e asciutto, privo di inutili decorazioni. La città sconosciuta, del 1925; Le belle del 1927, la raccolta riscoperta da Sellerio e poi da Gallimard (1991); Il sole non è tramontato (1929). La siracusana, storia triste di una malmaritata, zia Clementina, avvolta in un silenzio le cui ragioni si riveleranno solo dopo il suicidio: è il racconto d’apertura della sezione di testi brevi inclusa nel nostro volume, dove tocchiamo apici di intensità persino superiori alle pagine di Rubè.