Corriere della Sera, 17 novembre 2023
Da Berlusconi a D’Alema e Montanelli. Se il leader va nella «tana» del nemico
Che brutta cosa quando non ti invitano alle feste. Sei piccolo piccolo, e te ne stai lì, solo in casa, con la mamma che ti porta i Lego con gli occhi straziati. Oppure sei adolescente, e allora è pure meglio, tanto quelle dee meravigliose manco ti vedono. O sei adulto, e li senti che si mettono d’accordo a bassa voce, e tu mai puoi bere alla coppa d’un fiato, ma a piccoli sorsi interrotti. Ma pure se ti invitano può essere un guaio. Galoppi felice con Lucignolo, entri burattino nel paese dei balocchi e esci ciuchino. Oppure sei un potente re straniero, e Nerone ti invita. Ti colma di onori, ti dedica giochi fantastici, ti riempie la nave di ori e gioielli, e tu salpi e cominci a capire che sei entrato re ed esci burattino, vassallo dell’imperatore più onirico della storia. O te ne vai al banchetto della pace del Trono di spade con tutta la famiglia, e quelli ti sterminano pure i nipoti.Ci vado o non ci vado alla festa di Atreju di Giorgia Meloni? No che non ci va Elly Schlein, che ha preso tempo per rispondere solo per finta, visto che non ha intenzione di cinguettare con la premier, né, tantomeno, di uscirne burattino, o ciuchino, o vassallo, anche se il rischio di finire avvelenata è comunque inesistente. Soprattutto non vuole partecipare al gioco della legittimazione del nemico, che la parola avversario è buona solo per i tempi di pace, e con le elezioni europee alle porte proprio non se ne parla. Che tanto, per riconoscersi figli di un unico Paese, ci sarà tempo, magari un giorno, quando forse i rapporti di forza si saranno invertiti.
Non che non si possa andarci lo stesso, quando pare che convenga, alla corte del nemico. Massimo D’Alema ci andò a Mediaset, proprio nella sede e con occhio padronale, a dire che: «Non sono qui per rendere omaggio a Silvio Berlusconi, ma a un’azienda che è un patrimonio per l’Italia». E proprio Berlusconi si autoinvitò a sorpresa sotto casa, alla festa dell’Unità in quel di Arcore, per fare il mattatore, due ore da affabulatore, fino a bamboleggiare: «Vedete, miei cari, sono un compagno anch’io, come voi, però riformista». E d’altra parte aveva già detto di essere pronto ad iscriversi al Pd, dopo la relazione di Piero Fassino a un congresso. Ma pure Giorgia Meloni, già premier, c’era andata all’assemblea della Cgil a rivendicare il confronto, perché «la ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori». Anche se oggi, dopo la precettazione, sarebbe meno facile. Addirittura, Indro Montanelli salì sul palco di una festa dell’Unità: «Vi prego, basta applausi, ve lo chiedo per legittima difesa».
La festa di Atreju è l’invenzione geniale di una Giorgia Meloni poco più che ragazzina, debuttò 25 anni fa, nel 1998. Atreju è un bambino Pelleverde nel libro e nel film La storia infinita, e ha occhi scuri che vedono fino all’orizzonte. Politica e goliardia. Memorabile la «Kazirata» a Gianfranco Fini, quando i giovani di Atreju chiesero all’allora ministro degli Esteri di sostenere la causa dell’inesistente e oppresso popolo kaziro. O quando Berlusconi fu costretto ad inventare per condannare vita e opere di un immaginario dittatore comunista, o quando a La Russa venne chiesto di spiegare la presenza di militari italiani a Paros, o a Veltroni di parlare della borgata Pinarelli. Tutto questo prima di finire lei stessa, Giorgia Meloni, infilzata dai due buontemponi russi. Poi sempre meno scherzi e più politica, fino a contendere a Bruno Vespa lo scettro di «Terza Camera» prima dell’elezione del presidente della Repubblica.
Negli anni si sono avvicendati Fausto Bertinotti, che condannò i carri armati a Budapest e a Praga ma difese Fidel Castro. Mario Capanna, che discusse degli anni Settanta con De Angelis. E Poi Giuseppe Conte: «Vi voglio in salute per una dialettica seria», Enrico Letta: «Su noi due è partito un film, ma non è vero, siamo avversari», Massimo D’Alema, Marco Minniti, che tra applausi e risate raccontò di avere al ministero la scrivania di Mussolini, Luciano Violante, Luigi Di Maio,che disse meglio Meloni di Salvini. Poi Matteo Renzi, che, dopo una serie di rifiuti, andò e vide nella palla di vetro le elezioni anticipate. Nicola Zingaretti a cui donarono una maglietta, Ignazio Marino, che lodò: «Meloni rappresenta il tipo di destra con cui vorrei confrontarmi ogni giorno». E poi Nichi Vendola, che al gioco della torre salvò D’Alema e buttò giù Rutelli. Ad Atreju ci è andato pure Vauro e ha calpestato quel palco una discreta schiera di ministri.
Ma adesso basta, che il tempo delle buone maniere è finito, e noi che fummo educati alla gentilezza, noi no, non potemmo essere gentili. Ora è il tempo de «I duellanti», il film dove due ufficiali ussari si sfidano e ancora si sfidano negli anni con le sciabole. Da una parte il saggio e coraggioso Armand d’Hubert, dall’altra l’impenitente e rissoso Gabriel Féraud. L’impressione è che sia Giorgia che Elly si contenderanno il ruolo del capitano Féraud, e vada come deve andare.