la Repubblica, 17 novembre 2023
Abbiamo visto il film di Paola Cortellesi, insieme a Teresa Vergalli staffetta della Resistenza
A bocca chiusa, a bocca chiusa»,canticchia Teresa alla fine del film. E all’improvviso sembra una ragazza, una di loro, una delle tante donne accalcate davanti al seggio per la loro prima volta. La canzone di Daniele Silvestri acquista un passo ancora più saltellante nelle labbra di questa giovane signora di 96 anni che la bocca chiusa non l’ha tenuta mai. Teresa Vergalli, ex partigiana della Val d’Enza, nome di battaglia Annuska, centinaia di chilometri macinati in bicicletta, la piccola pistola nascosta sotto la maglietta. «Sai quante cose si possono fare a bocca chiusa? Come dice la canzone: partecipazione certo è libertà, ma è pure resistenza».
Il 2 giugno del 1946 aveva diciannove anni, quindi non abbastanza per mettere la sua croce sulla scheda, ma già matura per insegnare alle donne a compierlo, quel gesto rivoluzionario. E ora lo rivive davanti al magnifico film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, un atto d’amore per le donne e per il cinema che torna a farsi rito collettivo. «Casa per casa, nella campagna lungo la via Emilia, facevamo lezione di voto: con il facsimile della scheda mostravamo come aprirla, tracciare il segno, poi a chiudere la busta senza stropicciarla. C’era una grande eccitazione, le donne si sentivano onorate da quella convocazione, ma molte temevano di sbagliare perché avevano mani callose, abituate alla zappa più che alla pagina scritta. E in tante erano analfabete, incapaci di distinguere un simbolo dall’altro. E noi le rassicuravamo: andate tranquille, è il vostro giorno! La scelta questa volta è solo vostra, di nessun altro».
Se la ricorda bene quella domenica di giugno, quando la mamma, le zie, le sueamiche correvano contenteal seggio stringendo in mano la tessera elettorale come un biglietto d’amore. «L’acconciaturaera proprio quella, anche i vestiti della festa, il filo di rossetto sulle labbra. E le facce. Sono le facce del dopoguerra, ingenue, disarmate, timide, trattenute dalla fame e dal pudore. Ma come ha fatto la regista a trovare quelle facce?», scherza Teresa sapendo che è tutta bravura degli attori. E la più brava le appare proprio la protagonista, Delia, «dolcemente arresaalla vita e a una condizione di minorità come lo erano le mogli di quel tempo».
Anche molte partigiane furono ricacciate nell’ombra, espropriate dei meriti, scippate soprattutto del loro protagonismo. Non parla di sé Teresa, riconosciutadallo Stato come combattente della Brigata Garibaldi. Parla delle sue compagne rimaste nel retropalco della Storia. «Avevano vissuto una stagione eroica per poi ripiombare zitte e buone nei ranghi decisidal patriarcato. Perché in fondo che cosa avevano fatto? Nulla, dicevano le donne. Non abbiamo fatto nulla. E ovviamente solo in questo gli uomini ci davano retta».
E ora le sembra di rivivere quei giorni, tutto le appare eguale, la retina per la spesa fatta a uncinetto, la vecchia Singer, il catino con l’acqua gelida, il pappagallo, la sigaretta come supremo gesto di ribellione. Perfino l’altezzosa serva-padrona Adelina le ricorda le domestiche delle case borghesi, le peggiori di tutte, dice, perché volevano comandare. E quando Delia si lamenta della sua paga inferiore rispetto al salario del maschio – «ma quello è omo», si giustifica il datore di lavoro – Teresa s’arrabbia, proprio come allora. «Ma tu lo sai che le contadine nonerano riconosciute dai contratti di mezzadria? Il padrone non le considerava forza lavoro». Lei ha fatto tante battaglie, ancora prima della Liberazione, nei collettivi femminili dei Gruppi di Difesa delle donne. «Ma era tutta teoria, poi nella pratica eravamo sottomesse ai dirigenti maschi».
«Zitta tu che sei donna», «nemmeno la serva sai fare», così Ivano incalza la moglie Delia per tutto il film. A Teresa non l’ha mai detto nessuno, ma le torna in mente la sua amica Laila, che lo sentiva dire a casa dei vicini: ma che ne sai tu del mondo? L’8 settembre del 1943 Laila aveva aiutato i soldati a scappare dalla caserma, ma una volta salita in montagna subì il ricatto del suo fidanzato, un operaio delle Officine Reggiane: se non torni in pianura non sei degna di essere madre dei mieifigli. «Noi donne partigiane eravamo considerate delle poco di buono, esposte alla tentazione dei corpi maschili. Bastava poco per sporcare di malizia lo sguardo della gente, anche accettare un regalo dai soldati americani». Per una tavoletta di cioccolata Delia-Paola Cortellesi finisce per buscarle dal marito violento, perché questo succede solo alle baldracche, inveisce Ivano, alle ragazze che fanno le scivolose per strada. «Vedi, lei resta in silenzio, non parla, non tenta nemmeno di spiegare come ha ricevuto la cioccolata dal militare afroamericano. Ammutolisce perché sa che la sua parola non conta nulla». Bravo, bravissimo Valerio Mastandrea nel dar vita al coniuge energumeno. «E che coraggio ad accettare un ruolo così respingente. Non tutti erano come Ivano, ma c’erano uomini come lui. Attraverso le pareti risuonavano non le urla delle donne ma i colpi sordi delle percosse, e nessuno interveniva perché era normale così».
Si fa silenziosa Teresa quando la cinepresa indugia sulla quotidianità in bianco e nero del Testaccio, il sottano immerso in un buio pesto, la polvere, i tessuti strappati, due bambini per un unico letto. «Fin troppo lusso», dice a sorpresa. «Ma qui siamo in città, per giuntaaRoma.Noi nonavevamoi quadri, solo un’immagine sacra di santa Lucia con gli occhi in mano: se ci penso mi fa ancora paura». Figlia di contadini emiliani, è cresciuta nella campagna povera di San Polo Denza dove i pagliericci pizzicavano per le foglie appuntite di granturco e i materassivenivano fatti con le piume di gallina. «La mamma ha fatto molti sacrifici per mandarmi a scuola. Le sorelle di mio padre la provocavano: ma sei matta a risparmiare per far studiare una femmina?». Sullo schermo scorrono le immagini di Delia che mette da parte i soldi per la figlia Marcellina. «La scuola era l’unica strada verso l’emancipazione. La cultura, non il matrimonio». E ride di gusto quando saltano le nozze di Marcellina per una ragione che non possiamo rivelare.
Teresa ha avuto una vita felice, un marito amorevole e il suo bel lavoro di maestra elementare. Ma è sempre stata vicina alle lavoratrici meno fortunate di lei. «Che bello!», ripete più volte alla fine del film, quando le donne con il voto acquistano finalmente il diritto di parola. E se avesse vicino Delia-Paola Cortellesi l’avvolgerebbe in un abbraccio silenzioso come fa ora con Mariana, la sua assistente rumena che le violenze maschili le ha patite sulla pelle. Ma non nel secolo scorso, solo pochi anni fa. Alta, mora, l’ovale del volto ben disegnato, Mariana se ne è stata immobile per tutto il tempo, ma davanti alla danza degli schiaffi gli occhi le diventano lucidi, e restiamo tutte in silenzio, aspettando che finisca. È una delle immagini più poetiche del film, la violenza rivissuta attraverso il ballo e una canzone, Nessuno, che raggela respiro e sentimenti. «Una trovata geniale», dice sommessa Teresa. «È la proiezione della donna violata che nasconde a se stessa la brutalità del marito raccontandosela come un gesto amoroso». Allora come oggi, in questo poco è cambiato. «Per me le botte erano ordinaria amministrazione», confida Mariana. «Facevano parte del matrimonio e dell’esistenza di una donna. È stato lo sguardo pieno di dolore di mia figlia a farmi capire che dovevo cambiare vita». Ora la figlia è cresciuta e vivein Romania con un fidanzato geloso. Mariana vuole che veda il film. «È ancora in tempo per salvarsi», dice.
C’è ancora domani parla in modo sorridente a tutte le donne, a quelle di ieri e alle ragazze di oggi, sospese in una storia di liberazione mai conclusa. «Ora capisco perché in sala ci sia tanta emozione», interviene Teresa. «Anche le donne più emancipate riconoscono nel film una parte nascosta di loro perché la dipendenza dal maschio non è finita. E ancora in troppi campi c’è discriminazione. Ogni tanto mi chiedo: ma cosa abbiamo lottato a fare se c’è ancora tanta violenza? Certo, sì,ne èvalsa la pena. Masiamo rimaste indietro, la strada è ancora lunga». Poi riprende a canticchiare la canzone di Silvestri, mentre nello schermo le ragazze del 1946 fanno squadra intorno a una Delia rinata, e non si sa se applaudire loro o questa loro coetanea, che le guarda settant’anni dopo con tenerezza e rimpianto.