Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  novembre 17 Venerdì calendario

Intervista a Gianni Berengo Gardin

Venezia 1968, contestazione alla Biennale d’Arte: la Celere carica i dimostranti in piazza San Marco, un agente alza il manganello sul fotografo che sta scattando e l’istante successivo cala una bastonata sulla sua Leica. Gianni Berengo Gardin ci mette la mano per proteggerla e la manganellata gli spacca un pollice. «A quella manifestazione c’erano gli amici, c’era Emilio Vedova, Peggy Guggenheim e soprattutto Luigi Nono, che mi chiamava Berengo Cardellin perché suonava come l’uccellino canterino», ricorda il fotografo. Finisce a botte ma macchina e rullino sono salvi, compresa l’immagine del celerino all’assalto.
Novantatré anni compiuti da poco, ligure per caso ma veneziano nell’animo, Berengo Gardin si guarda la mano col sorriso del veterano che osserva una vecchia cicatrice di guerra. Siede al tavolo da lavoro della mansarda di casa sua, dove solo un ingranditore e qualche vecchia macchina rivelano l’identità di un signore che ha raccontato l’Italia (e non solo) con la sua fotografia: «Negli ultimi dieci anni sono diventato più orso dell’orso, non frequento più nessuno, a parte Ferdinando Scianna, che vedo molto».
Vicino a lui la figlia Susanna, custode di un archivio di due milioni di scatti, una miniera da cui la figlia Susanna estrae gemme inedite come Le cose mai viste, libro raccolta di 120 foto che quest’anno hanno trovato la via della pubblicazione. Il padre intanto continua a esporre le sue fotografie: all’Abbazia di San Fruttuoso fino a inizio gennaio ci sono le sue immagini realizzate durante il lockdown, quando si era stabilito nella sua casa di Camogli.
Gianni Berengo Gardin, oggi che cosa fotografa?
«Quasi niente».
Ma su cosa troverebbe interessante puntare l’obiettivo?
«Mi interessa qualsiasi attività umana e ciò che non conosco».
Pur di portare a casa macchina e foto di quella giornata a Venezia si fece picchiare da un poliziotto.
«Salvai la Leica rompendomici un dito, perché la macchina era legata al polso e la protessi mettendoci la mano. Il Sessantotto l’ho fotografato molto, tutte le manifestazioni a Milano e il manicomio occupato a Parma».
Anni drammatici in cui si cominciava a sparare per le strade, lei si sentiva vicino al movimento?
«No, influenzato da Emilio Vedova e Luigi Nono divenni del Pci anch’io, non sono mai stato un extraparlamentare, ma feci foto di Mario Capanna all’occupazione della Statale e la contestazione di quel periodo. Poi, fotografando l’Olivetti, il contatto con gli operai mi ha reso moralmente comunista, ma non staliniano o filo-Putin: seguivo Berlinguer e Napolitano, la via italiana al comunismo».
C’è una forza politica che oggi raccolga il testimone di quella sinistra?
«Nessuno, se non all’acqua di rose. La Schlein pende a sinistra ma non si può dire che sia comunista. Per me la sinistra vuol dire lavorare per quelli che stanno male, invece c’è una visione ristretta su temi come i diritti Lgbtq mentre ne servirebbe una più ampia, su questioni che riguardino tutti».
I ragazzi che fotografava lei ardevano di passione politica, come li vede i ragazzi di oggi?
«Non sopporto il fatto che pensino solo a bere nella movida. Che senso ha bere e ubriacarsi quando ci sono mille altre cose da fare? Noi ci trovavamo a guardare un buon film, ci riunivamo in casa per lavoro o a parlare di politica con amici giornalisti e fotografi come Gabriele Basilico, il mio più grande amico fra i miei colleghi. Ci incontravamo in questa casa dove ci troviamo ora, anche quindici amici insieme, e mia moglie faceva una spaghettata per tutti».
Oggi tutti scattano col cellulare e c’è un’invasione di immagini, questo fenomeno uccide la fotografia vera?
«Io sono contrario ai selfie e quando si fotografa col cellulare lo si fa male e troppo facilmente, quando invece con la macchina ci vuole impegno. Ai ragazzi ai quali insegno dico sempre di pensare prima di scattare, mentre col cellulare fotografi qualsiasi cosa, anche quello che stai mangiando, ma c’è un’altra cosa cui sono contrarissimo».
Cioè?
«È il Photoshop. Le racconto un episodio: a Roma un tombino intasato provoca allagamenti ogni volta che piove, così un cittadino ha segnalato la cosa al Comune di Roma e qualcuno gli ha risposto via mail, con una foto modificata con Photoshop, per dimostrare che avevano fatto l’intervento sul tombino, quando non era vero. Lo abolirei per legge».
La tecnologia attuale offre strumenti di manipolazione tali da far impallidire Photoshop.
«Con l’intelligenza artificiale si possono modificare cose terribili, il finto arresto di Trump ne è un esempio. Si falsifica qualsiasi realtà, si possono inventare fotografie e provocare reazioni brutali».
Trova che oggi ci sia meno libertà rispetto a cinquant’anni fa?
«Non so, ma ci sono più pericoli per la libertà».
Il governo di destra l’ha mai preoccupata a questo riguardo?
«Qualcosa di buono pare abbiano fatto, ma niente di importante. Io sono nato col fascismo e ho faticato a togliermi di dosso l’educazione e la mentalità fascista. Ci indottrinavano fin dalle scuole elementari e rivedere un partito con la fiamma del Movimento sociale italiano mi fa orrore. Prima o poi la Meloni diventerà un piccolo Mussolini senza però averne l’intelligenza politica: Mussolini era bravissimo a sfruttare gli italiani e mio papà gli credeva, perché era anti-comunista».
Ci faccia un esempio di quell’educazione e delle conseguenze che provocava.
«Nel 1940 ho assistito al discorso di Mussolini in cui dichiarava guerra, dicevo bene e bravo perché avevo avuto un’educazione fascista».
Torniamo alle foto, lei ha cominciato coi settimanali, ha bazzicato il cinema italiano dei tempi d’oro e conosciuto Cesare Zavattini, che ricordo ne ha?
«In vita mia ho avuto colpi di culo spaventosi, il primo è stato lavorare al Mondo di Pannunzio dal 1953, quando ero ancora un fotoamatore, fino alla sua chiusura, negli anni Sessanta. Alla fine divenni uno dei tre fotografi che hanno pubblicato di più per il giornale. Poi ho lavorato quindici anni con Renzo Piano, ma il primo ritratto che mi ha dato di più è stato quello di Zavattini: nel 1973 andai a Luzzara a fotografare lui e la sua casa. Ne uscì un libro, Un paese vent’anni dopo, che riprendeva il lavoro di Paul Strand che però per me era troppo poetico, troppo lirico. Io ne feci un libro sociale, sui contadini e sulla gente».
Lei ha novantatré anni, come vive l’idea della morte?
«Dopo i novant’anni ho meno interesse per la vita, mi aspetto di morire da un momento all’altro, ma non ho paura della morte. Ho fatto un esame al cuore, mi hanno detto “lei morirà di tutto salvo che di cuore”. Mi secca morire perché lascio una vita meravigliosa: i figli, la casa al mare, la fotografia... Ma mi fa incazzare questa storia della morte che si porta via tutto. Invidio quelli che muoiono nel sonno». —