il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2023
Ecco la cronaca della guerra dei cent’anni in poche parole
In edicola con “il Fatto” e nelle librerie “Israele e i palestinesi in poche parole” di Marco Travaglio (ed. Paper First). Anticipiamo ampi stralci dell’introduzione al libro
La storia di Israele mi ha sempre appassionato, fin da ragazzo. La prima guerra arabo-israeliana che ricordo è l’ultima, almeno in senso classico: quella del Kippur, nel 1973, quando avevo nove anni. L’idea che il mondo arabo, con i suoi spazi e territori sconfinati, non sopportasse l’esistenza di un minuscolo Stato ebraico grande poco più della Puglia, era per me intollerabile. Così come l’idea che per vent’anni due Paesi arabi, l’Egitto e la Giordania, avessero occupato militarmente i territori assegnati dall’Onu nel 1947 ai loro “fratelli” palestinesi anziché aiutarli a costruirvi il loro Stato, preferendo usarli come carne da macello e come scudi umani per i loro giochi di potere insieme alla leadership dell’Olp. Che per decenni si è giocata lo Stato palestinese alla roulette russa della guerra e del terrorismo. Come poi Hamas. Infatti i peggiori massacri di palestinesi non li aveva perpetrati Israele, ma tre Stati arabi: la Giordania, la Siria e il Libano. Circondato da Paesi che si proponevano di distruggerlo e ci avevano provato per ben quattro volte in 25 anni, Israele mi appariva come Davide contro Golia. E non avevo dubbi da che parte stare, pur conoscendo, riconoscendo e denunciando i crimini e gli errori di Israele: le stragi del 1947-’48, l’esodo forzato dei palestinesi dalle loro case (Nakba), la colonizzazione della Cisgiordania e di Gaza che contraddice il principio “terra in cambio di pace”, le corresponsabilità dell’esercito nel massacro di Sabra e Chatila durante la prima campagna libanese, le repressioni delle due Intifada, le rappresaglie contro la popolazione di Gaza prima e dopo il suo abbandono nel 2005. Poi è arrivato Bibi Netanyahu e Israele è diventato indifendibile: non solo il suo governo, ma anche la maggioranza dei suoi abitanti, che l’hanno eletto e rieletto quasi ininterrottamente per 14 anni mentre faceva a pezzi le fondamenta dell’unica democrazia del Medio Oriente e sabotava gli accordi di Oslo, sostenendo cinicamente Hamas per giocare al “tanto peggio tanto meglio” contro l’Autorità Nazionale Palestinese e moltiplicando i coloni in Cisgiordania (dove Hamas non c’è più dal 2007). Non più Davide contro Golia, ma Golia contro Davide.
Quando, il 7 ottobre 2023, Hamas ha sterminato 1.400 ebrei israeliani in poche ore e preso in ostaggio 239 persone, Israele è tornato Davide per un giorno. Ma la sera stessa Netanyahu si è impegnato allo spasimo per farlo tornare Golia, riuscendo paradossalmente a rafforzare Hamas.
Leggendo i giornali italiani e ascoltando i dibattiti in televisione, mi sono reso conto che tutti parlano di Israele e dei palestinesi, ma pochi ne conoscono la storia. Così l’ho riassunta (…) in questo piccolo libro, che non è un’opera storica, ma una semplice cronaca dei fatti più importanti che spiegano la Guerra dei Cent’anni, giunta oggi alla sua ultima puntata (ma solo, temo, in ordine di tempo). Mi auguro che sia utile anche a chi ricorda confusamente qualcosa, ma deve riordinare le idee e gli avvenimenti. E soprattutto che aiuti il solito dibattito all’italiana fra tifosi delle due curve ultrà – Israele contro palestinesi, buoni contro cattivi, civiltà contro barbarie, democratici contro terroristi – a ritrovare un po’ di lucidità e di obiettività, di sfumature, di capacità di distinguere, di attinenza ai fatti e di uso corretto delle parole. Già, perché l’ignoranza sui minimi rudimenti storici del conflitto arabo-israeliano alberga tanto nella curva filo-israeliana quanto in quella filo-palestinese. Altrimenti nessuna delle due tifoserie pretenderebbe adesioni alle proprie bandiere “senza se e senza ma”, come se cent’anni di guerra non fossero pieni proprio di se e di ma, di torti che diventano ragioni, di ragioni che diventano torti, di torti che coabitano con le ragioni, in un intrico storico inestricabile che non conosce più il bianco e il nero, ma soltanto il grigio dei torti abbracciati ai morti.
Gli anti-Israele, nell’ansia di denunciare i crimini di guerra del governo Netanyahu con termini sempre più truculenti, tirano in ballo la pulizia etnica, il genocidio, l’Olocausto, la Shoah, il nazismo, l’apartheid, pescando nelle tragedie più orrende della storia (preferibilmente di quella ebraica) per sbatterle in faccia agli israeliani. Ma qui l’unica pulizia dovrebbe essere quella linguistica, cioè mentale. Usare le parole giuste per descrivere ciò che accade non sminuisce di un grammo le responsabilità di Israele: aiuta solo a capire il problema. C’è ben poco di etnico nella guerra israelo-palestinese: Hamas uccide a sangue freddo gli ebrei israeliani non in quanto ebrei, ma in quanto israeliani; Israele bombarda gli abitanti di Gaza non perché sono palestinesi (lo sono anche 2 milioni di cittadini ed elettori di Israele), ma perché Gaza è la roccaforte di Hamas. La Shoah-Olocausto è un unicum storico: nessuna strage, per quanto ampia ed efferata, può esservi accostata (con buona pace dello stesso Netanyahu che, bestemmiando, ha paragonato Hamas al nazismo). Il genocidio è lo sterminio pianificato di un intero popolo: gli ebrei e gli zingari nei lager nazisti, gli armeni e pochi altri casi nella storia. Idem per l’apartheid: chiunque abbia visto o studiato come viveva e quali leggi subiva la maggioranza nera dei cittadini sudafricani sa che le discriminazioni e le privazioni inflitte agli abitanti dei territori occupati di Cisgiordania ed ex occupati di Gaza, per quanto orribili, sono tutt’altra faccenda.
Anche la curva dei pro-Israele abusa delle parole. La “guerra di civiltà” fra Occidente buono e resto del mondo cattivo, fra democrazie e dittature – evocata per paragonare la guerra israelo-palestinese a quella russo-ucraina – oltre a portare jella, visto com’è finita la famosa controffensiva di Kiev per “sconfiggere la Russia”, è un’altra idiozia. Putin non ha invaso l’Ucraina perché è democratica (fra l’altro non lo è), ma perché stava entrando nella Nato e, dopo otto anni di guerra civile, minacciava il suo tutoraggio sui russofoni di Donbass e Crimea. L’equazione “fronte pro-Ucraina e anti-Russia = fronte pro-Israele e anti-Hamas” non sta in piedi: la Russia, dal 1947 al 1967 e poi di nuovo dopo il 1989, ha avuto e ha buoni rapporti con Israele, mentre Usa e Nato hanno ottime relazioni con il Qatar e le altre monarchie della penisola arabica che armano, finanziano e ospitano Hamas, per non parlare della Turchia di Erdogan, che loda e giustifica Hamas anche dopo l’ultima strage e fa parte della Nato. Israele non invia armi a Kiev, è rimasto neutrale e di recente ha rimbalzato l’imbucato Zelensky quando, sparito dai radar e dimenticato da tutti, ha tentato di sfilare in passerella a Tel Aviv. E ancora: Hamas non ha massacrato 1.400 israeliani il 7 ottobre 2023 perché Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma perché Hamas pretende di rappresentare la maggioranza dei palestinesi ostili all’occupazione delle loro terre. E perché voleva impedire che Israele estendesse all’Arabia Saudita gli Accordi di Abramo siglati con gli Emirati e il Bahrein, archiviando la questione palestinese. Nel 2006 Hamas aveva persino accettato, almeno a parole, le regole democratiche e rinunciato alla lotta armata per partecipare alle prime (e uniche) elezioni dell’Autorità Nazionale Palestinese, accogliendo l’invito del presidente Abu Mazen e del Quartetto Onu-Ue-Usa-Russia. Poi le aveva vinte, era andato al governo e Usa&Ue avevano iniziato a boicottare l’Anp. Da allora i palestinesi, pro o anti-Hamas, hanno capito cos’è la democrazia per noi “buoni”: una finzione che evapora se vince chi non vogliamo noi.
Il Netanyahu Fan Club ripete a pappagallo che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente: il che è vero, malgrado Netanyahu (basta leggere le critiche che riceve dai giornali israeliani o pensare alle 40 settimane di proteste contro le sue schiforme: scene impensabili in qualunque Stato arabo e anche in Italia). Ma non esime il governo di Tel Aviv dalle sue responsabilità: anzi, proprio perché si tratta di una democrazia, le moltiplica. Che democrazia è quella che bombarda, affama, asseta, assedia e invade una delle zone più densamente popolate del mondo dicendo di voler colpire i capi di Hamas, perlopiù comodamente alloggiati a migliaia di chilometri?
Dicono anche, i filo-Israele senza se e senza ma, che oggi lo Stato ebraico corre il pericolo più grave della sua storia. Ma è un falso storico: quella che Israele ha subìto il 7 ottobre è la più grave strage di civili della sua storia, ma i rischi che ha corso per la sua sopravvivenza fino agli anni 80 erano infinitamente superiori a quelli che corre oggi. Hamas non ha la forza militare per spazzarlo via; e neppure l’Iran (che, diversamente da Israele, non ha l’atomica e, contrariamente a quanto afferma la propaganda, non è il mandante di Hamas, organizzazione sunnita laddove a Teheran c’è un regime sciita, mandante semmai di Hezbollah nel Sud del Libano e della Jihad Islamica in Cisgiordania e a Gaza). E né l’Egitto, né la Giordania, né la Siria, né il Libano, né l’Iraq, che fra il 1948 e il 1973 attaccarono più volte Israele, hanno alcuna intenzione di rifarlo (…).
Un altro falso dozzinale è “Hamas contro tutte le democrazie”. Non potendo mettere anche Hamas sul conto di Putin (ci hanno provato Zelensky e qualche sua cheerleader italiota, subito smentiti dallo stesso governo israeliano: “assurdità complottiste”), gli atlantisti de noantri sommano le pere con le patate per accreditare un’unica “guerra di civiltà” contro l’Islam, la Russia e pure la Cina (…). Ma sono essi stessi a marcare la differenza, visto che per la guerra ucraina ripetono i mantra “c’è un aggredito e un aggressore” e “la guerra finisce quando l’invasore si ritira”, mentre per risolvere la questione palestinese si guardano bene dal proporre il ritiro degli occupanti israeliani dalla Cisgiordania (…).
Ma il guaio più grosso è che persino Netanyahu sembra ignorare la storia di Israele (…). Dopo tanti statisti di destra e di sinistra, magari con le mani insanguinate ma capaci di elevarsi anche oltre se stessi quando la storia li chiamava, Israele non ne ha più avuto uno dal 2005, quando Ariel Sharon si ritirò da Gaza, fondò un partito di centro favorevole ai due popoli in due Stati e poco dopo finì in coma per un maledetto ictus (…). Ogni volta che ha preteso di combattere il terrorismo con l’esercito, Israele ha sempre perso. È accaduto nelle due guerre del Libano (…) e nelle sette guerre di rappresaglia scatenate contro Hamas a Gaza dopo il ritiro del 2005 (…). Dopo ogni “guerra al terrorismo” combattuta con gli eserciti, anziché con l’intelligence, il terrorismo anziché diminuire aumentava e Hamas e Hezbollah, anziché indebolirsi, si rafforzavano (…). Ora, bombardata la formula “due popoli, due Stati”, il vero rischio è “due Stati, nessun popolo”. O, peggio ancora, “nessuno Stato, nessun popolo”.