Linkiesta, 16 novembre 2023
Colti di presentismo, cioè analfabeti
in generale – è la smania di non escludere nessuno. Di tener dentro tutti, che già sarebbe un’istanza curiosa (escludere è il modo in cui una scelta culturale si definisce) ma diventa ridicola in un’epoca in cui il pubblico non ha nessuna voglia di far fatica. Ricordo perfettamente la prima volta in cui ascoltai “American Pie”, brano del 1971 che è parte del canone pop (ora arriva qualcuno che mi dice che il folk non è pop) americano. Avevo ventisette anni, ero smaniosa di presente com’è congruo lo sia una ventisettenne, e ignorante com’è fisiologico sia una ventisettenne.
Però era il 2000: esistevano gli adulti. Adulti in grado di dirmi che la canzone che io scoprivo rifatta da Madonna aveva una storia che avrei dovuto conoscere, una versione più lunga che avrei dovuto ascoltare, un contesto culturale.
Era più facile essere ignoranti – non c’era Spotify, non c’era YouTube, a stento c’era Google – ma era più imbarazzante. Delle lacune ti vergognavi, ti arrabattavi a colmarle, sapevi da sempre e per sempre che non avresti mai finito di imparare e che nel mondo erano state fatte e pensate troppe cose perché tu le sapessi tutte.
Adesso, le voragini delle proprie conoscenze si rivendicano. Adesso, se fosse il 2000, io direi: eh ma non ero neanche nata, come facevo a conoscerla. Adesso, un brano di dieci anni fa – “A bocca chiusa”, di Daniele Silvestri – spunta da qualunque video ed entusiasmo d’attualità perché sta nel film di Paola Cortellesi, e dieci anni fa è come se fossero cento per il pubblico malato di presentismo che mica lo conosceva prima, mica se lo ricordava prima, mica possiamo pretendere abbia idea delle canzoni non di stagione.
Adesso, le lacune sono tali solo se possiamo farne indignazione social, e se una derelitta ventottenne in tv chiede agli ospiti come sia lavorare con un certo cantautore, ignara che quel certo cantautore è morto ventisei anni fa. Ignara come lo sono quelli a casa, che però diversamente da lei hanno davanti il telefono e quindi, forti di Google, diventano improvvisamente storici della musica.
Mi hanno aggiunta a una chat con velleità culturali. È piena di gente pagata per far funzionare l’intelletto, alcuni persino più vecchi di me (non credevo ne esistessero). Mi ha aggiunto qualcuno che non conosco e che aveva trovato il mio numero nella chat di Sgarbi e Morgan, e un giorno di questa modalità per cui le chat culturali sono i nuovi muri dei cessi degli autogrill e tutti si sentono autorizzati a usare il tuo numero dovremo parlare – ma non oggi.
L’altro giorno, in questa chat, un adulto ha linkato un articolo che riportava come Gino Paoli avesse detto che i Maneskin non li conosce ma ne sente parlare fin troppo. Il commento di questo teoricamente adulto teoricamente non analfabeta, cui davano ragione altri teoricamente adulti teoricamente non analfabeti, era: «Non so se tra 100 anni qualcuno si ricorderà fuori dall’Italia di Gino Paoli, certamente dei Maneskin si… grazie anche a questi sprezzanti giudizi…» (puntini e mancanza d’accenti come nell’originale).
Quando ho pensato che al racconto dei tic di questo secolo servisse la categoria del presentismo, non avrei mai osato immaginarne un esempio così perfetto. Pensare che a restare sarà ciò che è famoso oggi, ed è famoso per le copertine e i vestiti e senza che nessuno ne conosca una canzone che sia una; che a essere ricordato non sarà quello le cui canzoni canticchiamo da sessant’anni. Finché lo pensa un ragazzino delle medie – ma il guaio è che i ragazzini delle medie siamo diventati noialtri, fallimentare classe dirigente.
(Poi certo, «tra cent’anni» è un trucco retorico infallibile, giacché nessuno di noi sarà qui per verificare e dire «hai visto che avevi torto». Peraltro spero molto in un ventiduesimo secolo in cui i sussidiari, tra i fenomeni minchioni del secolo precedente, raccontino anche la dittatura degli stylist e come essa poteva fare e disfare fenomeni, e in quel caso i Maneskin ci starebbero benissimo).
Può essere che il Lorenzo Jovanotti che ventiseienne cantava «se io fossi capace, scriverei “Il cielo in una stanza”» fosse un eroe dell’approfondimento culturale perché conosceva una canzone di prima che nascesse? O è che all’epoca (era il 1992) eravamo consapevoli d’un’ovvietà quale il fatto che le canzoni sono la cosa più senza tempo che ci sia? Era normale che io conoscessi Battisti o persino Modugno; sarebbe normale adesso (e per alcuni fortunati ragazzini lo è) che i ventenni cantassero dei Guccini di quando persino i loro genitori non erano nati, e che non stanno nella pagina delle novità di Spotify.
Mentre sul mio telefono comparivano deliri su Gino Paoli invidioso dei Maneskin come Salieri di Mozart (l’esempio giusto sarebbe stato: come Margo Channing di Eve Harrington – ma il cinquantenne presentista ha tra i film di formazione “Amadeus” e non “Eva contro Eva”, del quale probabilmente direbbe «Eh ma non ero neanche nato»), io pensavo al libro di Zadie Smith, “L’impostore”.
Che parla d’un processo davvero avvenuto, nell’Inghilterra dell’Ottocento, e d’uno scrittore realmente vissuto e dimenticato; chi intervista l’autrice cerca disperatamente ciò che riconosce tra le righe e si esalta quando trova Charles Dickens (finalmente una cosa che so in questo cruciverba non facilitato), ma non Thackeray (perché in Italia “La fiera delle vanità” pensano sia un giornale e non un romanzo).
Nelle settimane più ricche, il libro di Zadie Smith vende trecento copie, perché nonostante sia per venirci incontro frammentato in capitoli di tre pagine ha troppi strati, troppa storia, troppi personaggi da seguire, e facciamo fatica, e non la vogliamo fare. Se solo trovassimo un modo di semplificare e tener dentro i giovani e la loro labile attenzione e i loro inesistenti riferimenti culturali. Magari, se di Zadie facessero una versione a fumetti. Magari, se di “La gatta” facesse una cover Tedua, chiunque egli sia.