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 2023  novembre 12 Domenica calendario

La nuova vita rossobruna di Rizzo


ROMA La testa rasata che come lui stesso ammette «fa un po’ fascista», sperimentata in un campeggio estivo nel lontano 1982 e mai più abbandonata, diventa elemento di discettazione politica quarant’anni dopo, adesso che con alcuni che «fanno un po’ fascista» Marco Rizzo potrebbe costruire nientemeno che una lista comune alle Europee. Lui, che da anni si muove come una sorta di custode ultimo dell’ortodossia comunista, non si sottrae al parallelo politico-tricologico, anzi lo rilancia. «Se non mi fossi rasato a zero a quest’ora sarei come Bersani, con ciuffetti di capelli giusto sulle tempie e sulla nuca. E io non voglio essere come Bersani, né dal punto di vista politico né da quello estetico».
All’appuntamento con l’adunata rossobruna di domenica 26 novembre, che vede la sua Democrazia sovrana e popolare («mia e di Francesco Toscano, lo scriva») nello stesso cantiere di ex missini doc come Gianni Alemanno e Fabio Granata, Rizzo ci arriva con la forza di quell’autocertificata coerenza di fondo che nell’ultimo mezzo secolo l’ha posizionato, a detta sua, sempre dalla parte della sinistra più radicale. Gli dicono e gli diranno che ora sta coi fascisti? Lui risponde coi ricordi della Torino di piombo in cui è cresciuto: «I fascisti mi hanno aspettato tre volte sotto casa. In due di queste sono scappati loro, in una io. Potevo essere morto, eh?».
Torinese, classe ’59, più volte parlamentare, leader della Rifondazione comunista che all’esordio sabaudo superò anche il Pds, Rizzo è talmente fedele al teorema del «nessun nemico a sinistra» da averlo tatuato addosso. Tolti Stalin e forse Pol Pot, forse gli unici marxisti-leninisti a cui riconosce un tasso di radicalità maggiore o comunque uguale al suo, ha descritto come più moderato chiunque, ma proprio chiunque, da Che Guevara a Massimo D’Alema, dal Subcomandante Marcos a Fausto Bertinotti, da Mao-Tse Tung ad Armando Cossutta. «Molti di quelli che facevano il pugno chiuso assieme a me sono finiti coi banchieri, con le multinazionali, con la Nato», scandisce. E quando gli si chiede se un banchiere o la Nato siano peggio di un fascista, lui, che si dice cultore dell’antifascismo militante e coriaceo, dice di «no, peggio la Nato di un fascista perché la Nato è il nuovo fascismo. Io sto dove sono sempre stato, sono gli altri ad aver cambiato idea…».
Certo, quando fa così un pochino sembra il protagonista della vecchia barzelletta sul tipo contromano in autostrada, che sentendo la notizia alla radio bofonchia tra sé e sé «altro che un pazzo contromano, ne ho visti almeno venti». Però l’uomo è così, in fondo è rimasto il pugile dilettante che menava le mani alle manifestazioni del movimento studentesco nella Torino che fu e lanciava i cori contro Piero Fassino che stava in prima fila (lui urlava «Fassinooooo!» e i suoi, a mo’ di cantilena, «lungo e cretino!»). Non è che non gli piacciano semplicemente – in ordine sparso – l’America, l’Europa, l’Australia, l’Ucraina di Zelensky, Israele, la Nato, il Pd, la sinistra italiana, il socialismo europeo, il Pse. È tutto questo, certo, ma molto di più. «Una cosa riconosco alla Schlein. Ho capito che mia moglie fa l’armocromista. È lei che mi dice sempre che abbino male i colori e come sistemarli… Ma vogliamo parlare del sindacato di Landini? La Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici, ndr) in Fiat scioperava di mercoledì perché in mezzo alla settimana fermava il ciclo di produzione e arrecava il maggior danno al padrone. Questi è vero che scioperano sempre il venerdì perché così, grazie al fine settimana, aderiscono quelli che altrimenti non avrebbero aderito…». Dà ragione a Salvini? «Salvini e Landini, Schlein e Meloni, tutte facce della stessa medaglia».
Quando gli si fa notare che potrebbero dire lo stesso dei rossi e dei bruni, di lui e di Alemanno, non fa una piega. Anzi, l’attenzione per l’adunata del 26 e tutto il dibattito sulla possibile lista comune alle Europee lo elettrizzano. «Sono passato dall’underground al mainstream. Però bello, eh?».