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 2023  novembre 12 Domenica calendario

Intervista a Laurie Anderson

 Le categorie esistono affinché una come Laurie Anderson possa tirarsene fuori. Non chiamatela artista multimediale, lo detesta.
A 76 anni si considera semmai «una narratrice di storie, che a volte usa il violino, altre il computer, il disegno, la macchina fotografica». Vanno aggiunte le installazioni nei più importanti musei, libri, film, i mondi elettromusicali che ha creato, con un gusto del bello e del bizzarro, per instillare domande, non per dare risposte. Senso del gioco e impegno l’hanno portata a sperimentare: tra gli amish, per vivere una realtà alternativa; alla cassa di un McDonald’s per capire i processi di massificazione; a indagare sui sogni dormendo in spazi pubblici; alla NASA come artista residente; a ideare concerti di clacson e di cani.
Ci chiama da Manhattan, dallo studio sul fiume Hudson che ha condiviso con suo marito Lou Reed, scomparso nel 2013. Il loro primo appuntamento fu a una convention di elettronica, poi ventuno anni insieme «fino alla fine del mondo».
Ventuno è anche la forma del Tai Chi che Lou fece con le mani negli ultimi istanti di vita, e una danza Tai Chi c’è nel liveLet X = X(stasera al Teatro Comunale di Carpi, domani a Trento) dove Anderson ripercorre brani della sua carriera con la band newyorkese Sexmob.
Il primo tour fu proprio in Italia negli anni 70. La accolsero bene?
«Benissimo, e ne sono grata.
Suonavo per strada il violino, con un registratore integrato che ripeteva i suoni e i pattini infilati in un blocco di ghiaccio come timer dell’esibizione. Oppure suonavo nelle gallerie d’arte. Io e altri come Philip Glass eravamo espatriati, ci esibivamo più da voi e in Germania che negli Stati Uniti».
Tempi in cui riuscivate ad immaginare il futuro?
«Io ne sono ancora capace, credo solo che oggi sia più difficile cambiare la situazione politica.
C’è ancora empatia, vedo una generazione di giovani impegnati però la pressione per renderci bravi capitalisti è forte, ti schiaccia e rende più difficile sentire l’altro».
Nei suoi live chiede al pubblico “l’urlo di Yoko Ono”. È liberatorio?
«C’è sempre un buon motivo per gridare! È importante protestare, ma anche celebrare la vita attraverso la musica, che considero ancora il modo migliore per capire la nostra epoca. Guerre e sofferenza sono sempre esistite e purtroppo esisteranno. Quindi cosa facciamo?
Rendiamo il mondo sopportabile, come possiamo, con generosità».
Lei ha sempre dato importanza ai testi. Non trova che il linguaggio nella musica sia regredito?
«L’importanza dell’immagine cresce e la necessità di un vasto vocabolario diminuisce. Siamo creature molto intuitive, possiamo sentire guardando, ma non saperlo mettere in parole. Non sempre è un danno. Io però ancora amo trovare la parola giusta per ciò che voglio dire».
Ha un progetto di intelligenza artificiale per scrivere canzoni con Lou Reed. Cosa esce fuori?
«Non ho certo l’illusione di scrivere canzoni con il mio defunto marito, ma il suo stile è lì dentro. Tutte le sue musiche e i suoi testi sono caricati nel sistema, insieme ai miei: è la cosa piu vicina a una collaborazione».
E l’allarme sull’intelligenza artificiale che minaccia l’umanità?
«Ho sempre amato la tecnologia ma quando viene usata come strumento per suggerire nuove strade. È sicuramente pericolosa ma sta a noi esseri umani decidere dove direzionarla. Ad esempio, attualmente in molte scuole gli insegnanti non cercano più dirintracciare l’intelligenza artificiale nei compiti dei loro alunni e cominciano a dire: ok, l’avete usata, ma cosa ci potreste fare? Invece di combatterla, si può trarne vantaggio. Io la sto usando per un’opera intitolata Ark».
Cos’è?
«Un concerto visuale che debutta nel 2024 a Manchester e parla di miti, apocalisse, salvezza. Nell’arca che immagino non ci sono animali e piante, ma informazioni».
“O Superman” è in scaletta, nel 1981 già parlava di un mondo finito fra braccia petrolchimiche e militari. Profetica?
«Non so leggere il futuro, a volte basta leggere i segnali del presente».
Con David Bowie provò la lettura del pensiero.
«Mi chiamò convinto che sapessi farlo e via fax ci scambiammo dei disegni fatti lì per lì, inaspettatamente simili. Non so dare un nome a ciò che non comprendo. Diciamo che ha funzionato. C’era una forte connessione».
Definì la sua morte «una conquista dell’uomo» e fu orgogliosa di quella di Lou Reed.
«Bowie ebbe il coraggio di fare un disco mentre moriva. Lou smise di avere paura prima di andarsene. La morte è un argomento tabù in Occidente, invece aiuta molto accettare l’ovvio e cioè che siamo s u questa Terra per un tempo che è quasi niente. Il ricordo è fondamentale. John Lennon ha vissuto 40 anni, ma è morto da 43».
Cosa intende?
«Non molti hanno festeggiato questo fatto, io invece trovo interessante che sia stato vivo nella memoria più di quanto non lo sia stato nella carne. Si muore di nuovo, quando vieni dimenticato».
Lei ha detto: «Lo scopo della morte è liberare tutto l’amore che hai». Sta tutto lì?
«Sì, nell’amore, molto semplice».