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 2023  novembre 12 Domenica calendario

Intervista a Fabrizio Melillo, il più giovane cuoco tristellato della guida Michelin

Cosa fosse una stella Michelin l’ha capito grazie alla maestra delle elementari. Ora che ne ha ottenute addirittura tre ed è il più giovane “tristellato” d’Italia, lo chef Fabrizio Melillo, classe 1991, ne ha ben chiaro il significato e nutre altri sogni rispetto a quel motorino che fu la spinta per mettersi ai fornelli.
Adesso, nell’olimpo della gastronomia, forte degli studi in Francia e dell’esperienza in cucineinternazionali, sa che deve far navigare in un mare ancora più complesso e competitivo il ristorante I Quattro Passi di Nerano, aperto dal papà Antonio – Tonino – quasi quarant’anni fa.
A parte l’aria respirata da sempre in famiglia, come si costruisce il percorso verso un traguardo così importante?
«Ho cercato di avere il giusto background per affrontare la sfida diuno stile di cucina che conciliasse quella di mio padre, che ho osservato a lungo, con qualcosa che mi appartenesse e potesse esprimere una novità».
Ma era il suo sogno fin da piccolo?
«Le racconto un aneddoto. Ero alle elementari e una mattina la maestra apre il giornale e mi fa i complimenti: Fabrizio i tuoi genitori hanno preso la stella Michelin, mi disse. Io e i mieicompagni non avevamo certo la sensibilità per capire il valore di quel premio. Le abbiamo chiesto cosa fosse una stella Michelin e ce lo spiegò. Allora ho cominciato a capire perché i miei genitori fossero così presi dal lavoro tanto che io e mio fratello Raffaele, che adesso lavora con me in sala, abitavamo con i nonni. Ho iniziato a comprendere che stavano costruendo qualcosa di grande».
Quando ha iniziato a lavorare con loro?
«A 14 anni, ma a dire il vero era semplicemente per il desiderio che hanno tutti i ragazzi: comprarmi uno scooter. Mio padre mi disse che avrei potuto guadagnarmelo lavorando in sala. Intanto avevo cominciato il liceo linguistico, perché avevamo una clientela internazionale e con papà e mamma Rita pensammo che fosse la carta giusta per stare a contatto con i clienti».
E come avviene il passaggio in cucina?
«Un giorno ero pronto per cominciare in sala, ma mio padre mi chiese di fare un’esperienza ai fornelli. Un cuoco in futuro – mi disse – può scegliere di fare il cameriere, ma il contrario è più difficile. Ma la scintilla vera ci fu solo fu quando visitammo l’ InstitutPaul Bocuse a Lione, dove poi ho studiato per tre anni. Ho visto quanto prestigio c’era in quella professione, quanto orgoglio. E poi in un certo senso vestivo la maglia dell’Italia, c’era la voglia, per tutti noi studenti da diversi paesi, di farsi spazio in Francia, in una classe molto competitiva con insegnanti di eccellenza. Mentre in Italia il nostro non era considerato un mestiere prestigioso, lì ne ho compreso l’orgoglio, l’eleganza, la classe, a partire dal rispetto per la casacca».
Poi le esperienze lavorative: quali sono state decisive?
«Sono rimasto folgorato da Alain Ducasse a Le Louis XV di Montecarlo. E poi nel 2014 quando in inverno ho lavorato da Quique Dacosta nel suo Denia. Dal primo mi sono misurato con una cucina tre stelle matura, potevo osservare il Mediterraneo valorizzato con pensiero francese. Così come da Quique Dacosta ho visto altre interpretazioni della mediterraneità».
È stato difficile affiancare papà Antonio e poi essere il titolare della cucina?
«Quando sono tornato a casa mi sono messo un po’ in ombra, volevo studiare quello che nel frattempo, nel 2011, era diventato un due stelle.
Avevamo una clientela storica e tutto funzionava, dovevo comprendere a fondo la filosofia di cucina, cosa la clientela si aspettava da noi. Ho iniziato come capo partita. Poi a poco a poco ho impostato la cucina come desideravo, sentendo comunque la responsabilità delle due stelle che mio padre aveva conquistato».
Le tre stelle mancavano da tanto al Sud, pensa che la Michelin sia stata nel tempo poco generosa con questa terra?
«La terza stella è una responsabilità e una gioia che regalo e condivido con i miei cari e la mia regione. Non penso che la guida sia stata poco generosa e lo dimostrano le tante stelle arrivate da noi. È chiaro che fare ristorazione in Campania vuol dire confrontarsi con un turismo internazionale. E fare una cucina comprensibile, legata al territorio e raffinata è un equilibrio più difficile da trovare».