La Stampa, 12 novembre 2023
Il nuovo libro di Antonio Scurati
Pubblichiamo l’incipit del nuovo libro di Antonio Scurati, Fascismo e populismo, appena uscito per Bompiani, in cui l’autore racconta cosa accomuna il fascismo ai sovranismi di oggi. Questo testo trae origine dal discorso che l’autore ha tenuto alle Rencontres internationales de Genève il 29 settembre 2022, pochi giorni dopo le elezioni politiche italiane.
Viene un momento in cui non è più lecito nascondersi. Chi vuole raccontare la Storia – quella con la maiuscola, la vicenda collettiva dei popoli nel corso del tempo, quel tempo che diventa umano soltanto entrando in un racconto – deve riconoscersi come parte di essa. Chi aspira a questo genere di narrazione deve dichiararsi colpevole.
Colpevole di cosa? Di essere uno dei tanti. Di essere come tutti. Come tutti coinvolto, implicato, partecipe. Di non poter – come insegnò il poeta – distinguere il danzatore dalla danza. Di non potere né di volerlo fare. Aver smarrito il sentimento della Storia è causa di una delle grandi menomazioni spirituali della nostra epoca, epoca per molti altri aspetti privilegiata.
A partire dalla Rivoluzione francese, dieci generazioni di donne e di uomini si sono succedute vivendo nell’orizzonte della Storia, orizzonte immenso, terribile e promettente. Per due secoli, uomini e donne hanno potuto alzare lo sguardo verso quella linea lontana e sentire la propria piccola esistenza individuale come parte di un racconto più vasto, di una narrazione tumultuosa, a momenti forsennata, spesso sanguinosa, capace però di donare loro un senso e una direzione. Di notte, come una stella polare, la Storia brillava luminosa nel cielo che dimora eterno sui nostri affanni.
A partire dalla Rivoluzione francese, per due secoli dieci generazioni si sono appellate al futuro per ottenere giustizia: davanti al tribunale della Storia, millenni di schiene spezzate e di sofferenze senza nome avrebbero finalmente trovato riscatto. Riscatto e risarcimento. Persino vendetta. Dieci generazioni di madri e padri hanno creduto con magnanima fiducia che la vita dei figli sarebbe stata migliore della loro e che l’esistenza dei nipoti sarebbe stata migliore di quella dei figli. E si sono fatti trovare pronti a lottare per questo, a morire e persino a uccidere. Ecco la promessa della Storia, la promessa che promette se stessa: il futuro ci attende, il futuro ci appartiene. Il futuro è uno di noi. Ecco l’impegno della Storia: la storia non è mai scritta una volta e per tutte, la storia è sempre lotta per la storia. La storia siamo noi.
Poi, però, quell’orizzonte è svanito, la stella della redenzione si è spenta. In un qualche pomeriggio triste di fine secolo e millennio, in una stanza ben ammobiliata e male illuminata dallo schermo azzurrognolo di un televisore sintonizzato su di un canale morto, abbiamo smesso di credere nella Storia. Le nostre esistenze di occidentali si sono improvvisamente ristrette, sono diventate tutte una questione privata, una solitudine planetaria. Abbiamo cominciato a misurare ogni esperienza sul metro corto del presente, un metro su cui le grandi scene dell’esistenza individuale e collettiva non trovano posto. Abbiamo perso la capacità di sentirci attraversati da un tempo grande, che viene da lontano e va lontano, siamo diventati sordi alla voce che, nei momenti di disperazione, ci rincuorava sussurrandoci: coraggio, avanti, non sei il primo, non sei l’ultimo, non sei solo; insieme a te marciano legioni di esseri umani vissuti ed estinti prima che tu nascessi e marcia insieme a te una schiera ancora più numerosa, quella delle donne e degli uomini non ancora nati.
Eppure per chi, come me, voglia ritrovare quel sentimento perduto della Storia non è lecito nascondersi. Il romanziere che voglia andare in cerca in un tempo lontano di «fratelli che non sono più», deve riconoscere che, come insegnava Enzensberger, per i popoli l’unica storia che conti è quella tramandata come saga, come epos, come racconto collettivo da un brusio di voci anonime in un fascio di libere versioni che risultano appassionanti perché sono tutte appassionate, che ci coinvolgono perché sono tutte coinvolte, che ci commuovono perché sono tutte commosse.
E allora, questa sera, ho deciso di non nascondermi, cioè di non nascondere innanzitutto a me stesso il fatto che l’invito a questa prestigiosa serie di conferenze sulla pace – che si tiene fin dal 1946 – ha per me un significato storico e anche una profonda valenza esistenziale.
Il significato storico rimanda inevitabilmente al fatto che nel mio Paese, l’Italia, il Paese da cui stamattina sono giunto qui in treno, attraversando questi magnifici paesaggi alpini, in quel Paese che sta al di là dei monti che ci separano ma non dividono, pochi giorni fa i miei concittadini – non tutti, una maggioranza relativa ma consistente – hanno espresso la volontà che a governare l’Italia sia un partito di estrema destra i cui esponenti di vertice hanno una storia personale, biografica e politica che proviene dal neofascismo.
Noi sappiamo, anche per esperienza vissuta, che la Storia è tale proprio perché è un divenire e, quindi, lascia alle spalle alcune cose, alcune opinioni, alcune idee, ne trova e ne incontra di nuove, le trasforma, a volte le rinnega, o le dimentica, però non consente il riavvolgimento del nastro. Avere una storia non significa necessariamente avere un destino, nel senso che quel passato decide irreparabilmente del tuo futuro: eppure esso è qualcosa di incancellabile. «Non si può restituire il biglietto d’ingresso alla vita», diceva un grande pensatore; non si può cancellare la propria storia, la si porta con sé. Questo apre per me – e credo dovrebbe aprire per tutti gli italiani e non solo per gli italiani – un momento di seria riflessione, approfondito, accorato e pericoloso.
Chi giunga a governare un Paese da un passato di militanza politica neofascista ha davanti a sé un bivio. O scioglie definitivamente – attraverso un discorso pubblico, trasparente, dirimente – i nodi che lo avvincono a quel passato oscuro oppure si prepara a revisionare l’intera storia d’Italia tentando di cambiare di segno a quel passato, per gettare su di esso una sedicente nuova luce che ne neghi e disconosca l’oscurità. Poiché il dibattito pubblico mirato a sciogliere i nodi, a elaborare nella coscienza collettiva l’oscuro passato fascista e neofascista è completamente mancato, è facile prevedere che verrà battuta la seconda strada, quella del revisionismo fazioso e odioso. —