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 2023  novembre 15 Mercoledì calendario

Lucio Dalla l’americano (nel film di Veltroni)

Come tanti prima di lui, Lucio la sua America se la andò a prendere, non da emigrante e neanche da conquistatore, semplicemente da musicista che di America si era nutrito per tutta la vita. Fu un viaggio indimenticabile che ho avuto il privilegio di condividere, ho seguito Dalla tra Boston e New York in quei giorni di marzo del 1986, per raccontarlo sulle pagine di questo giornale ed ero al concerto al Village Gate, il “concerto perduto” protagonista del documentario realizzato da Walter Veltroni. Lucio allora era all’apice della sua maturità, un gigante piccolo e peloso che sprigionava estro, genioe illimitata fantasia, scalpitava, aveva bisogno di territori da conquistare e scelse la via più difficile, rifiutò il circuito degli emigrati nostalgici che gli avrebbe garantito onori e piatti di pasta. Non voleva saperne, mi confidò, non sarebbe mai andato fin laggiù a raccogliere applausi facili. Lucio l’americano voleva tutt’altro, voleva l’America, quella vera, voleva gli studenti dell’Università di Boston dove si esibì a caro prezzo, senza paracaduti e rete di protezione, davanti a 500 ragazzi che studiavano italiano e che di lui sapevano poco ma alla fine del concerto erano tutti in piedi ad applaudire, e io da cronista non riuscivo a non essere tifoso perché c’era in gioco una sfida, bella e di esito incerto.
Ricordo nitidamente la fatica, l’inizio freddo e poi man mano il calore, l’entusiasmo, l’energia della platea che scopriva chi aveva davanti, e poi subito bagagli in spalla, nel bus attrezzato con cuccette, tavolini e tv, per arrivare a New York, la grande mela, il frutto proibito da mordere. Lucio all’arrivo se ne andò in giro da solo, come faceva sempre, passò qualche ora immerso nelle sue esplorazioni con la testa persa nelle cime dei grattacieli, poi subito alle prove. Era un guerriero, voleva confrontarsi con un pubblico in parte nuovo, lui che in Italia era famoso e lì doveva battersi come un esordiente di fronte a una platea che per metà le sue canzoni neanche le conosceva, ma era quella la sfida, da combattere con gli Stadio che lo seguivano ed erano la squadra perfetta per vincere. Anche come performer Lucio era nel suo momento migliore, irresistibile, profondo, istrionico, e il massimo di cui era capace l’ha dato a New York, nel cuore dell’America che lo ossessionava e tornava spesso nelle sue canzoni. Voleva i luoghi sacri, quelli del jazz della sua mitologia e per New York scelse il VillageGate, dove alle pareti c’erano le tracce di tutti quelli che lo avevano preceduto, John Coltrane, Miles Davis, il luogo dove suonava il suo amato Keith Jarrett, insomma era come per un tenore suonare alla Scala. Ci ritrovammo lì fuori, davanti all’insegna, quasi increduli, Lucio disse: «Ti rendi conto, siamo nel cuore del Greenwich Village, il quartiere al mondo dove è passata più musica, più storia, più avventura, più rock, folk e jazz che in qualsiasi altro luogo». Mormorava scongiuri, ripassava canzoni che sapeva a memoria.
Il Village Gate si riempì e cominciò la battaglia. Il concerto fu stupendo, L’ultima luna, Anna e Marco, Cara, Balla balla ballerino, Futura, Tango,tutti pezzi pregiati, e rivederlo nel documentario conferma quel desiderio di osare rispondendo solo alla voglia interiore di dialogare con la propria personale mitologia, occuparla, esserci. Solo dopo, dopo che si spensero le luci, si concesse un piccolo cedimento: per non offendere la comunità italiana accettò una festa dopo-concerto, si andò a tutti a mangiare spaghetti in un’associazione a Little Italy, tra fiocchetti tricolori, cartoline, vecchie canzoni e ricordi d’Italia, con Lucio che stringeva mani, raccontava aneddoti, gli anziani che gli chiedevano notizie dei cantanti di una volta. Una tenerezza infinita, ma Lucio tornò a casa con un prezioso bagaglio, un concerto che sarebbe diventato un disco, erano le premesse per quell’estate dell’86 in cui dal cappello a cilindro dei destini incrociati della musica spuntò la più clamorosa delle invenzioni,Caruso,grazie a quella sosta forzata a Sorrento ben raccontata nella lunga introduzione nel documentario, la ciliegina sulla torta che completò quello che doveva essere il documento discografico del concerto di New York e invece con l’aggiunta della canzone diventò DallAmeriCaruso, il più brutto titolo dell’intera discografia di Dalla ma la più bella combinazione di poesia, l’America conquistata con la musica dal vivo e la dedica al tenore che con la canzone napoletana aveva conquistato il mondo. Acrobazie di cui solo Lucio poteva essere capace.