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 2023  novembre 15 Mercoledì calendario

Il senso della Patria per la sinistra

Come si colloca la sinistra rispetto alla parola “patria”? Il tema è stato al centro di una dotta conversazione nella casa romana di Corrado Augias, tra l’editorialista di Repubblica e Marco Minniti, una carriera da dirigente nella sinistra fino alla guida del Ministero dell’Interno, attualmente Presidente della fondazione MedOr. A spiegare le ragioni del dibattito, il direttore Maurizio Molinari: «Siamo qui con due luminari della storia e del fronte progressista. L’intento è dare vita a una discussione e un confronto sul tema della patria, per analizzarne l’importanza e le radici nel mondo della sinistra italiana».
 
Corrado Augias: «Il saggio di Vittorio Emanuele Parsi Madre Patria (Bompiani), il film diretto da Edoardo De Angelis, con Pierfrancesco Favino, Comandante, l’uso volutamente insistito del termine “nazione” da parte della presidente del Consiglio, ripropongono il concetto di Patria, delicato sempre, in particolare per la sinistra, ancora più in particolare per il vecchio Partito Comunista che il concetto di Patria ha rifiutato a lungo. In poche parole, nel dopoguerra l’idea di Patria è stata in pratica regalata ai neofascisti per il loro uso esclusivo. Marco Minniti, di quel Pci è stato autorevole dirigente ed è un intellettuale; a lui chiedo quali sono state a suo giudizio le ragioni del rifiuto. Io ne vedo una di fondo: il regime fascista aveva fatto un tale abuso del concetto di Patria da trascinarlo con sé nella rovina».
Marco Minniti: «Non c’è dubbio che prima di tutto abbia pesato l’uso drammatico che di questa parola è stato fatto dal fascismo e l’esito catastrofico della Seconda guerra mondiale. Quell’eredità nefasta ha reso difficile far emergere un sentimento forte di italianità. Lei ha giustamente citato il film Comandante, bellissimo ritratto del capitano di vascello Todaro che salva l’equipaggio di una nave da lui affondata. Perché lo fa? Quando gli viene chiesto, Todaro risponde semplicemente: perché siamo italiani. Era un militare sotto il fascismo, non un fascista».
Pierfrancesco Favino in una scena del film Comandante 
Pierfrancesco Favino in una scena del film Comandante
 
CA: «Concordo. Mio padre, ufficiale dell’aeronautica, prese parte alla lotta di Liberazione con il colonnello Montezemolo. Le chiedo però se di questo tema si sia mai discusso all’interno degli organi dirigenti del Partito Comunista. Oltre agli abusi del fascismo si può infatti intravedere una ragione storica del rifiuto: l’internazionalismo, alle radici dell’ideologia socialcomunista, escludeva il tradizionale concetto di Patria».
MM: «Non è un caso che l’inno dei lavoratori, la più popolare canzone socialista e comunista, sia L’internazionale. L’idea di fondo che animava l’internazionalismo è semplice: mai più conflitti e mai più confini. Mentre la bandiera rossa diventa bandiera universale».
CA: «Idea racchiusa tra l’altro nelle parole finali del Manifesto di Marx: “Lavoratori di tutto il mondo unitevi”».
MM: «Queste erano le premesse ideologiche. La dimensione che travalica patrie e confini è stata però drammaticamente contraddetta nella realtà con la costruzione dell’Unione Sovietica. L’Urss di Stalin era così fortemente nazionalista da firmare, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il patto Molotov-Ribbentrop con la Germania di Hitler. Cadeva di fatto qualunque visione internazionale e si sanciva una politica nazionale imperialista».
CA: «Per quanto ci riguarda, c’è forse una data che possiamo considerare uno spartiacque: l’8 settembre 1943. Con l’armistizio muore l’idea di Patria legata al fascismo. Qualche storico parlerà addirittura di “morte della Patria”. Forse è vero, ma non si può trascurare che contemporaneamente nasceva, con la Resistenza, un’altra idea d’Italia. Quale che sia la portata militare della guerra di liberazione, non si può negare il suo valore morale. Ascoltandola, ho pensato al bel saggio dello storico Claudio Pavone, Una guerra civile. Nella Resistenza, ha scritto, s’intrecciano tre componenti: una guerra tra italiani, una guerra patriottica quasi risorgimentale, una guerra politica delle brigate comuniste che guardavano alla rivoluzione socialista».
Una partigiana esulta insieme ad altri compagni di Resistenza (1945)
Una partigiana esulta insieme ad altri compagni di Resistenza (1945)
 
MM: «La guerra di Liberazione mise in campo uno schieramento politico e culturale molto ampio. Naturalmente c’erano i comunisti, ma accanto a loro c’erano le brigate di Giustizia e Libertà e i cattolici. Nasceva in quei mesi drammatici un nuovo concetto di Patria, condiviso da un ampio schieramento politico, culturale, religioso e ideale».
CA: «È lo schieramento che avrebbe scritto la Costituzione, vennero giustamente esclusi i fascisti che avevano calpestato i valori che quella carta sanciva. Mi chiedo però, visto che siamo qui a riflettere sul tema, che cosa è successo a distanza di quasi ottant’anni. Affiora nella nuova maggioranza di governo una spinta rivendicativa quasi si volessero dettare le regole di una nuova Italia. Penso anche alla recente proposta di riforma costituzionale».
MM: «La mia impressione è che non passerà. Nel momento in cui si pensano grandi riforme di carattere istituzionale, non dovrebbe venir meno quel principio dell’ampia condivisione inaugurato nel dopoguerra e che è stato un elemento guida nei passaggi più importanti, compresi quelli tragici, della nostra storia. Ciò ha molto a che fare con l’idea di Patria. È vero quello che lei ha detto in apertura, senza dimenticare però che ci sono stati momenti in cui il Pci ha saputo cogliere il sentimento nazionale. Penso, per esempio, all’amnistia come primo gesto di Togliatti da ministro della Giustizia nell’immediato dopoguerra. Il segretario comunista si rese conto che serviva un grande segnale pacificatore. Penso alla terribile stagione del terrorismo e delle Brigate Rosse. Qui si apre un altro aspetto non banale, la cosiddetta via italiana al socialismo. Era un elemento di profonda originalità rispetto alla dimensione internazionale di cui parlavamo all’inizio. Nel mondo diviso in blocchi, il Partito Comunista si rese conto che aderire al blocco dell’Est non era sufficiente, cercò una soluzione nazionale».
CA: «Lei accennava ai momenti drammatici. Uno di questi fu il rapimento di Aldo Moro. Il rifiuto di ogni trattativa con i terroristi creò molte fratture e di fatto portò al sacrificio dello statista democristiano».
MM: «All’epoca il Partito Comunista scelse di stare con lo Stato e con le istituzioni, riconoscendo che quelli delle Brigate Rosse non erano compagni che sbagliavano ma solo terroristi. Una sfida senza precedenti, che il nostro Paese riuscì a vincere senza derogare ai suoi principi democratici. Come una volta disse Sandro Pertini: bisogna difendere la democrazia con le armi della democrazia. Certo, a posteriori, possiamo pensare che Moro avrebbe potuto essere salvato. Non c’è dubbio che ci furono delle défaillance anche sul terreno investigativo, ma continuo a pensare che all’epoca la scelta della fermezza fu giusta. Forse un’altra strada avrebbe messo a rischio la nostra democrazia».
CA: «A Repubblica si discusse a lungo sulla posizione da tenere. Scalfari era convinto della linea della fermezza e quella fu la scelta del giornale. L’assunto di fondo era legato a un interrogativo non di poco conto: se lo Stato avesse ceduto per salvare Moro, chi avrebbe poi salvato la vita di un qualunque cittadino rapito dalle Br e usato come strumento di ricatto?».
MM: «Osservazione lucidissima. Trattare avrebbe messo un cappio alla democrazia italiana, l’avrebbe resa ostaggio dei terroristi. Inoltre, c’era il peso di coloro che erano morti assassinati dalle Brigate Rosse; a loro non era stata concessa la possibilità di scegliere. Naturalmente fu una scelta dolorosissima sul piano umano e politico. La morte di Moro ha prodotto un danno irreparabile. Sono convinto che con Moro in vita la storia della democrazia italiana sarebbe stata profondamente diversa».
Il corpo di Aldo Moro ritrovato in via Caetani a Roma il 9 maggio 1978
Il corpo di Aldo Moro ritrovato in via Caetani a Roma il 9 maggio 1978
 
CA: «Per tornare al tema portante di questa conversazione, mi sembra di capire attraverso i vari esempi che lei non ritiene del tutto vera la tesi che l’idea di patria fu lasciata ai fascisti. Nella vulgata corrente però questo concetto è rimasto; i fascisti hanno difeso la patria mentre i comunisti erano disposti a venderla. Giudizio grossolano, fa dimenticare un segretario comunista come Enrico Berlinguer che non esitava a usare il termine Patria».
MM: «Non solo. Fu sempre Berlinguer a dire, nel pieno della Guerra Fredda badi bene, che restare sotto l’ombrello protettivo della Nato lo faceva sentire più sicuro».
CA: «Tutto giusto ma le chiedo: basta questo a riparare i clamorosi errori commessi dal Pci? Quando nel 1974 si celebrò il referendum sul divorzio, il Partito Comunista inizialmente non capì che la maggioranza degli italiani era favorevole a quella legge. Il Pci fraintese il senso comune. Fu solo grazie alle sollecitazioni di Marco Pannella che alla fine si schierò garantendo la vittoria».
MM: «Va detto che allora i diritti civili, al contrario di quanto accade oggi, erano considerati una sovrastruttura rispetto alle questioni socioeconomiche. Quella discussione comunque prova la forza della pluralità di idee a sinistra. Proprio la sua capacità di aderire al sentimento popolare fu evidente nel successo straordinario delle elezioni del ’76».
CA: «Credo che l’iniziale ritrosia a capire la battaglia per il divorzio dipendesse anche da un altro fattore: la diffusa religiosità popolare. Le statistiche allora davano l’adesione al cattolicesimo al 95%. Molto probabilmente il Partito Comunista temeva che appoggiare il referendum avrebbe nuociuto in termini di popolarità tra i cattolici, molti dei quali erano militanti o votavano Pci. Non dimentichiamo che fu grazie all’appoggio di Togliatti e del Pci che i Patti lateranensi erano diventati materia costituzionale con il famoso articolo 7. Tra le altre cose, decretava il cattolicesimo come religione di Stato».
MM: «Pesava sul Partito il trauma della sconfitta del Fronte Democratico Popolare, ne facevano parte comunisti e socialisti, nelle elezioni politiche del 1948. Non c’è dubbio però che ci sia stata a volte da parte della sinistra eccessiva attenzione a non prendere posizioni che potessero disturbare la componente cattolica del partito. C’era il timore che una rottura col mondo cattolico potesse comportare un salto nel buio. Non dimentichi che stiamo parlando di un’epoca, chiusa nel 1991, in cui lo scontro tra i due blocchi e all’interno di ogni paese era molto aspro».
CA: «Partiti dalla negletta idea di Patria, stiamo in certo modo passando in rassegna i diversi momenti in cui la sinistra non ha saputo intercettare il senso comune. Tra queste occasioni mancate includerei anche le foibe, che tra l’altro hanno parecchio a che vedere con l’idea di Patria. Per decenni le foibe sono state reclamate solo dal Movimento Sociale. Ancora una volta la sinistra, incapace di districarsi dal pasticcio della Jugoslavia titina, ha lasciato all’agitazione di destra un argomento storico e umano di quell’importanza. Se ne fa specchio anche la storia di Guido Pasolini, fratello partigiano di Pier Paolo, ucciso a 19 anni nell’eccidio di Porzus, un episodio tragico in cui brigate partigiane bianche vennero sterminate da brigate partigiane rosse».
MM: «Condivido pienamente che intorno alle foibe c’è stato un drammatico disconoscimento della realtà. Così come è accaduto in seguito nel 1956 con i fatti di Ungheria o nel 1968 con la Primavera di Praga. Sono tutte occasioni in cui ha vinto un manicheismo che ha indotto i comunisti a schierarsi con il proprio blocco di riferimento nel quadro della Guerra Fredda. Una parte del gruppo dirigente in cuor suo disapprovava i carri armati sovietici a Budapest, tuttavia si uniformò. Ecco perché penso che oggi sempre di più vada riconosciuto ad Enrico Berlinguer, pur con tutti i suoi limiti storici, di essere stato il dirigente che più ha segnato un elemento di discontinuità e di rottura».
CA: «La sinistra ha avuto Berlinguer e il socialista Pertini. Aggiungerei un liberaldemocratico come Carlo Azeglio Ciampi. Uomini che sono riusciti a riportare nel campo largo progressista l’idea di Patria che, attenzione, risultava debole anche all’interno della Democrazia Cristiana. Lì prevaleva una visione irenica di fraternità lontana dal concetto di Stato, identificato con lo Stato laico e liberale».
MM: «Ecco un’altra componente di cui non possiamo non parlare. Sono pienamente d’accordo e aggiungo che anche la propensione cattolica a quello che definirei un “fraternalismo”, mi perdoni il termine, universalista è stato un altro fattore importante che ha ostacolato la costruzione di un’idea di Patria. Da una parte l’internazionalismo socialcomunista (molto forte in origine), dall’altra l’ecumenismo cattolico. Nessuna di queste due ideologie dava molta importanza all’idea di Patria».
CA: «Questo non è accaduto in Francia, dove il patriottismo ha radici solide nella Rivoluzione. Anche la Resistenza francese, guidata da un generale, non ha avuto i vari fattori di cui parlava Pavone; al contrario è stata più convintamente patriottica di quella italiana».
MM: «All’Italia è mancato credo un sistema Paese forte come quello francese che permettesse di condividere, al di là delle divisioni culturali, un’idea comune della parola Patria. L’auspicio è che in futuro si riesca a costruire anche qui un sistema del genere».
CA: «Qui si aprirebbe l’altro complicato argomento che riguarda la nostra incerta identità nazionale ma è bene che, invece, ci fermiamo».