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 2023  novembre 15 Mercoledì calendario

Perché c’è bisogno dell’arte

Perché c’è bisogno dell’arte, il libro di Claudio Strinati
È esercizio di libertà, fattore identitario e aiuta a risolvere i conflitti. Come spiega lo storico nel suo nuovo saggio di cui anticipiamo un estratto
In Occidente la storia dell’arte è suddivisa normalmente in periodi: Antichità classica, Medioevo, Umanesimo e Rinascimento, Manierismo, Barocco, Rococò, Neoclassicismo. Tale suddivisione arriva alle soglie del XX secolo che è definito come il secolo delle avanguardie, anche se si tratta di una sintesi troppo limitativa che è passata però nell’uso comune. Tanto è vero che sovente l’espressione “arte contemporanea” viene utilizzata per qualificare fenomeni culturali, inerenti a pittura, scultura, architettura, teatro, musica, cinema eccetera che appartengono al periodo che va, più o meno, dal Novecento a oggi. Dicitura, questa dell’arte contemporanea, a cui è spesso collegato nella pubblica opinione un giudizio di gusto tradizionale e facilmente tendente alla critica negativa e alla conseguente ripulsa.
Chi di noi, in proposito, non ha sentito pronunciare giudizi del tipo: l’arte contemporanea non la capisco, non mi piace, non mi desta alcuna emozione, ha abbandonato la ricerca della bellezza, probabilmente non è arte ma soltanto una presa in giro? Si tratta di questioni in verità molto interessanti, se prese nel verso giusto. Sono però questioni che riguardano soprattutto la teoria estetica e che vanno di certo affrontate in sede storica: non possono essere preponderanti in una trattazione come la nostra, che vuole indagare con uno sguardo ampio e necessariamente generalista il fenomeno delle espressioni artistiche nel corso della storia per evidenziarne gli scopi, l’evoluzione e le corrispondenze.
Direi quindi che in questa sede è sufficiente ricordare l’antico e saggio proverbio che dice: «Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace». E non c’è dubbio che in ogni epoca e in ogni civiltà umana, la domanda che ciascuno di noi si pone di fronte a un’opera d’arte, quale che sia la tecnica con cui è realizzata, è: mi piace o non mi piace?
Del resto è questa l’intenzione degli artisti in qualunque epoca e in qualunque civiltà siano vissuti: realizzare un lavoro che potremmo definire, in sede teorica, prodotto esteticamente connotato, cioè creato o se si preferisce fabbricato per presentarsi a noi come opera d’arte. Ciò che l’artista chiede al suo fruitore (spettatore, ascoltatore, visitatore, osservatore) è: ti piace?
La domanda è semplice e le risposte possono essere ovviamente le più disparate. La storia dell’arte è un tentativo di dare risposte, le più oggettive possibili, ma non è facile dato che ci occupiamo qui di una disciplina che è largamente e legittimamente dominata dalla soggettività. Perché dire mi piace o non mi piace è di certo un fatto soggettivo.
Del resto questa domanda giustifica nella sua essenzialità l’importanza dell’opera d’arte nel più generale contesto della vita sociale e personale di ciascuno di noi, a prescindere dal suo livello di cultura, di passione per l’argomento o di interesse tecnico o intellettuale per l’argomento stesso. Ci possono essere tante spiegazioni di tale interesse. Nel corso del tempo numerosi, avveduti filosofi hanno sostenuto che l’arte sembrerebbe un aspetto della vita umana veramente indispensabile e necessario. Conoscere o praticare l’arte sarebbe una delle funzioni dell’esistenza più formative e utili per la vita personale e la civile convivenza.
E non c’è dubbio sul fatto che alcune attività artistiche sono un mirabile beneficio per l’essere umano. Pensiamo al canto corale o alla musica strumentale di insieme, ad esempio. Non c’è modo migliore per insegnare concretamente all’essere umano i concetti di democrazia, reciproca correttezza, esigenza assoluta di sviluppare competenze tecniche e concettuali che garantiscano il buon risultato di quel che facciamo. Non c’è modo migliore per alimentare i principi dell’amicizia e dell’amore, della condivisione, del piacere della bellezza, della necessità dell’armonia per regolare le nostre vite e gratificare il nostro intimo.
La musica ha regole precise per poter essere attivata, regole che ammettono un ampio margine di violazione pur continuando a funzionare perfettamente. La musica è democratica in sé, ma per essere ben attuata ha necessità di obbedire a ordini ferrei e perentori. Così democrazia e dittatura si contemperano nell’arte in modo profondo e mirabile. Vale anche per lo sport (pensiamo alla funzione dell’arbitro), dove però la condivisione armoniosa può e deve essere esercitata sul piano dello scontro e della lotta, implicanti vittoria e sconfitta, esaltazione o umiliazione. Ma è una dimensione ineliminabile, quella della guerra, e del resto ben presente anche nell’esercizio di qualsivoglia forma d’arte perché proprio l’arte costituisce l’unico esorcismo possibile e praticabile alla naturale tendenza umana al combattimento e allo scontro.
L’artista è colui che affronta un problema da cui si generano inevitabili conflitti e lo risolve. Ma il problema che l’artista affronta, qualunque sia la sua tecnica di riferimento, è sempre e soltanto un problema intrinseco alla sua arte, non estraneo all’arte stessa. Per risolverlo l’artista deve creare e a quel punto, conseguita la sua vittoria, il beneficio che ne scaturisce è certo.
La storia dell’arte ci insegna quale sia questo beneficio, di tempo in tempo e di tradizione in tradizione. Definire bene questo concetto del beneficio non è semplice ed e tra i compiti specifici dello storico dell’arte. In tal senso e molto interessante un principio che circola profondamente nell’ambito degli studi storico-artistici e del funzionamento della amministrazione delle Belle Arti nell’attuale ottica dell’Unesco volta al riconoscimento dei principali siti, appunto, di interesse storico-artistico, oggi reperibili sulla faccia della Terra sia in relazione ai beni materiali sia a quelli immateriali.
Si sostiene sempre più frequentemente, del resto, come per i vari popoli della Terra l’arte costituisca un fattore identitario, quel qualcosa cioè in cui tutti si riconoscono come se avvertissero delle radici profonde del proprio essere, radici che l’arte rivela e conserva soddisfacendo quel desiderio innato di bellezza che l’arte realizza al massimo livello.
Il libro
Breve storia dell’arte di Claudio Strinati (Salani, pagg. 368, euro 16,90). Pubblichiamo parte dell’introduzione