Corriere della Sera, 14 novembre 2023
I primi passi della dc
Uno dei paradossi (della cultura storiografica e politologica contemporanea) più difficili da spiegare consiste nella scarsa attenzione al partito italiano che ha tenuto banco e dettato legge (quasi su tutto) nella seconda metà del secolo scorso, notano Guido Formigoni, Paolo Pombeni, e Giorgio Vecchio nell’accuratissima Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993 pubblicata dal Mulino. Non che siano mancati sugli scaffali delle librerie volumi dedicati all’argomento: la Storia della Dc (Rizzoli) di Giorgio Galli riedita e aggiornata per quasi trent’anni; due preziosi volumetti di Marco Follini – La Dc (Mulino) nella collana «L’identità italiana» curata da Ernesto Galli della Loggia e Democrazia cristiana. Il racconto di un partito (Sellerio) – un Follini saggista che però quella formazione politica aveva avuto modo di conoscerla dall’interno; la Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere Dc (Laterza) di Antonio Gambino, dedicata alla seconda metà degli anni Quaranta; più in generale La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996 (Mulino) di Pietro Scoppola. A cui vanno ad aggiungersi profili e diari di singoli leader scudocrociati: Alcide De Gasperi (e qui va senz’altro segnalata la biografia di Piero Craveri pubblicata dal Mulino), Giulio Andreotti, Aldo Moro, Amintore Fanfani; ma anche Antonio Segni, Mario Scelba, Mariano Rumor, Paolo Emilio Taviani, Emilio Colombo e, via via, moltissimi altri di minor spessore. Ma nel complesso hanno ragione Formigoni, Pombeni e Vecchio quando denunciano una sorprendente mancanza di attenzione alla storia della Dc. Che si nota ancor più adesso che sono trascorsi trent’anni dalla triste fine di quell’esperienza politica.
Curiosa, notano i tre storici, la circostanza che la Dc non abbia una precisa data di fondazione. Non è stato tramandato, scrivono, «un momento originario, un congresso, un appuntamento con caratteri simbolici forti, come nel caso di altri partiti». Nel 1926 era stato sciolto il Partito popolare, i cui dirigenti avevano preso la via dell’esilio (don Luigi Sturzo, Giuseppe Donati, Francesco Luigi Ferrari ad esempio) o si erano ritirati nel privato. Qualcuno aveva cercato un compromesso con il regime, qualcun altro aveva trovato riparo nell’Azione cattolica. Ma i più se ne stettero per quindici anni in disparte. Tornarono relativamente allo scoperto all’inizio degli anni Quaranta. Per primo, il cenacolo che fin dal 1940 si riuniva settimanalmente nella casa romana di Sergio Paronetto, dirigente dell’Iri e dei laureati cattolici. Tra loro De Gasperi – successore di Sturzo nel 1923, poi ultimo segretario del Ppi – Scelba e Giuseppe Spataro. Nell’autunno del 1940 tra i promotori di incontri d’identico genere – ancorché politicamente meno impegnativi – ci furono padre Agostino Gemelli e monsignor Francesco Olgiati. Nel 1941, a Roma, Franco Rodano, Adriano Ossicini, Marisa Cinciari e altri fondarono un partito clandestino che dialogava con l’estrema sinistra e nel 1942, coinvolgendo Felice Balbo e Fedele D’Amico, prese il nome di Partito comunista cristiano. Nello stesso 1941 si affacciarono alla politica i «Guelfi» milanesi Piero Malvestiti e Gioacchino Malavasi. Contemporaneamente nella casa milanese del filosofo Umberto Padovani si vedevano, con una crescente regolarità, Fanfani, Giuseppe Lazzati, Antonio Amorth, Sofia Vanni Rovighi, Giorgio La Pira, don Carlo Colombo, Gustavo Bontadini. Assieme al loro grande ispiratore: Giuseppe Dossetti.
Non sempre i convenuti si rendevano conto di quel che erano in procinto di costruire. Lazzati ricordò in seguito una colazione in un ristorante con Giovanni Gronchi e Achille Marazza nel corso della quale, mentre mangiavano, «per tutto il tempo non parlarono d’altro che di divisione di posti». Di altri incontri – in cui non si parlò esclusivamente di come spartirsi il potere al momento in cui fosse caduto il regime fascista – se ne ebbero comunque in molte altre città. A Torino il 29 settembre del 1942 si riunirono ex deputati del Partito popolare assieme a dirigenti dell’Azione cattolica. Qualcosa di analogo accadde in quelle stesse settimane a Genova. Si confrontavano le opinioni di chi (Spataro e Gronchi) voleva riportare in vita il partito sciolto nel 1926 – come stavano facendo socialisti e comunisti – e chi (De Gasperi) voleva fondarne uno nuovo. Fu in quel frangente che si riaffermò, stavolta definitivamente, la personalità dello statista trentino.
Dopo aver subito per un breve periodo il carcere fascista, De Gasperi aveva preso a vivere «una vita riservata con l’appiglio professionale modesto che gli era stato offerto in Vaticano» presso la Biblioteca apostolica. Oltre a Guido Gonella, Igino Giordani e Gerardo Bruni, con cui era in contatto anche per ragioni di lavoro, intensificò i rapporti con un gruppo di amici: Scelba, Spataro, Giovanni Longinotti, Ercole Chiri, Camillo Corsanego, Stefano Jacini, Umberto Tupini, Emilio Bonomelli, Mario Cingolani.
Secondo i ricordi di Spataro già nel 1941 gli appuntamenti con questi amici «presero un metodo più rigoroso»: ci si divise per commissioni cercando di elaborare per iscritto «singoli punti per uno schema di programma». Nel corso del 1942 si iniziò a ipotizzare una sconfitta militare dell’Italia e, di conseguenza, una possibile caduta del regime fascista. De Gasperi ebbe proprio in quel momento un periodo di «stanchezza e depressione» che curò con un soggiorno in Valsugana. Ma si riprese e, direttamente o per interposta persona, iniziò a incontrare – oltre ai futuri dirigenti della Dc disseminati in tutta Italia – vecchi notabili liberali come Meuccio Ruini e Ivanoe Bonomi. Quando si progettava «il partito», si pensava che potesse rappresentare una «consistente minoranza». Nessuno aveva in mente che di lì a sei anni, il 18 aprile del 1948, la Dc avrebbe quasi conquistato la maggioranza assoluta dei voti (mancandola per un soffio). Furono gli Alleati a credere nel partito che De Gasperi andava costruendo e a dargli affidamento. Nella primavera del 1943 circolò un ciclostilato con il titolo Idee ricostruttive della Democrazia cristiana. Quasi nessuno di quei cattolici, però, ebbe sentore della riunione del Gran Consiglio che il 25 luglio del 1943 avrebbe provocato la caduta di Mussolini.
Pesò in quell’estate del 1943 «la subitanea implosione delle strutture del partito unico e quindi del regime totalitario che crollò quasi senza combattere». Quei cattolici, colti di sorpresa, «per molti intuibili motivi» avevano sperato in un periodo di transizione più lungo con la classe dirigente tradizionale costretta a «farsi carico della liquidazione della dittatura, della guerra e delle relative pendenze internazionali». Spataro e Scelba furono in quel momento i più reattivi. De Gasperi «sembrava resistere alla fretta». Probabilmente la prudenza era dovuta anche ai suggerimenti di monsignor Montini, che gli riferiva delle esitazioni del Papa. Pio XII ad esempio non condivideva le posizioni antimonarchiche di alcuni dirigenti, come Gronchi, del costituendo partito democristiano. Dopo l’armistizio dell’8 settembre a De Gasperi fu offerto rifugio nelle ville pontificie di Castelgandolfo e lì riparò fino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Nel frattempo, al Nord, molti dei futuri capi democristiani presero parte attiva alla Resistenza: Taviani, Dossetti, Zaccagnini, Gui, Marcora, Mattei, Gorrieri. Non Fanfani, che si rifugiò in quello che lui definì un «esilio» svizzero.
Nel secondo governo Badoglio entrarono per la Dc il napoletano Giulio Rodinò e il siciliano Salvatore Aldisio. Su iniziativa di Rodinò – che all’inizio degli Anni Venti era già stato ministro in tre governi: con Nitti, Giolitti e Bonomi – si tenne a Napoli dal 16 al 18 aprile 1944 il primo Congresso Dc. Ben altro peso ebbe, dopo la liberazione di Roma, l’ingresso nel governo Bonomi di De Gasperi, Tupini e Gronchi. Così come ben più rilevante fu un secondo Congresso della Dc che si tenne (sempre a Napoli) dal 29 al 30 luglio e che acclamò De Gasperi segretario del nuovo partito.
Il passaggio fondamentale per la crescita del nuovo gruppo dirigente della Dc si ebbe con la crisi del governo Bonomi (novembre 1944). Socialisti e azionisti si ritirarono dal governo. De Gasperi stabilì un’intesa con il segretario del Pci Palmiro Togliatti per rimettere insieme un governo, guidato sempre da Bonomi, pressoché identico al precedente. E prese per sé il ministero degli Esteri (gli erano stati offerti gli Interni). Era, sottolineano gli autori, «una posizione che comportava la necessità di gestire la patata bollente delle trattative di pace». Ma lo costrinse a fare i conti con la nascita dell’egemonia statunitense e con quella che si delineava come l’appartenenza a una sfera di influenza alternativa a quella sovietica. Se per Togliatti era naturale (fin troppo come lui stesso dovrà constatare) far capo alla sfera staliniana, per De Gasperi «non era un rapporto scontato quello con i vincitori anglo-americani». In particolare, con gli Usa, del cui ruolo nel secondo dopoguerra l’Italia nel suo complesso si rese conto al termine di un processo assai lento.
Con la fine del 1944 la centralità della Dc non apparve più in discussione nel mondo cattolico. La Chiesa prese ufficialmente le distanze dagli altri partiti sorti in quegli anni, in particolare nel momento della condanna dei cattolici comunisti, i quali andarono a costituire il Partito della sinistra cristiana per poi sciogliersi alla fine del 1945 (la vicenda è stata ricostruita al meglio da Carlo Felice Casula in Cattolici comunisti e sinistra cristiana 1938-1945 edito dal Mulino). Le relazioni prefettizie cominciarono ad essere piene di riferimenti all’opera del clero che sosteneva la Dc. Vale comunque la pena di notare, secondo Formigoni, che tra Chiesa e Dc «non si trattava di una saldatura senza residui». In che senso? Continuava «a esistere anche una riserva ecclesiastica potenziale, che comportava a tratti l’apparizione di sensibilità antipolitiche tutt’altro che spente». E comunque, «di visioni critiche verso la nuova egemonia dei partiti antifascisti». Talvolta addirittura di nostalgie semi autoritarie verso l’antica tesi dello Stato cattolico.
La Chiesa di Pio XII molto si preoccupò al momento della nascita del governo presieduto da Ferruccio Parri. De Gasperi si angosciò assai meno e approfittò di quella stagione per consolidare il vertice del partito affiancandosi Attilio Piccioni (destinato quasi esplicitamente alla sua successione), Giuseppe Dossetti e Bernardo Mattarella. Poi il gruppo fu molto allargato e quando si giunse alla caduta di Parri, la scelta per il successore cadde – non senza qualche difficoltà – proprio su De Gasperi. Pio XII restava perplesso e nel febbraio del 1946 lamentò con Giacomo Martegani direttore de «La Civiltà Cattolica», la «confusione che ingenera la tendenza alla collaborazione con le sinistre da parte delle forze cattoliche, tra cui anche la Democrazia cristiana». Il Papa sembrava non rendersi conto del fatto che la Dc non era affatto sicura in quel momento di prevalere alle elezioni sui socialcomunisti. E convocò nuovamente Martegani per manifestargli le sue «apprensioni» nei confronti di un partito, la Dc, dai cui dirigenti si sarebbe aspettato «un atteggiamento più deciso e più forte». Contro le sinistre, ovviamente.
Gli anni che vanno dal 1946 al 1953 furono fondamentali a che De Gasperi rimettesse in piedi l’Italia. Ma, come spiega bene Pombeni, quando si giunse al momento della legge maggioritaria destinata ad emarginare la destra e a dividere, in prospettiva, i socialisti dai comunisti, De Gasperi fu sostanzialmente un incompreso. Pio XII lo osteggiò apertamente e i dirigenti di partito che aveva allevato ne approfittarono – quasi tutti, eccezion fatta per Piccioni – per accelerare la successione. Probabilmente era inevitabile: De Gasperi nato nel 1881, aveva all’epoca settantadue anni. Ma le modalità furono crudeli.