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 2023  novembre 14 Martedì calendario

Sulla nuova canzone dei Beatles

È uscita una nuova canzone dei Beatles: l’ultima, secondo quanto proclamato dalla macchina promozionale di Emi-Universal e dai Beatles stessi (o almeno dai due quarti che sono ancora su questo pianeta). Per rinforzare la simbologia – che è potente: leggere «The last Beatles song» fa girare la testa – Now and Then è disponibile anche su 45 giri, con sul lato b un nuovo mix di Love Me Do, primo singolo del 1962. In realtà la canzone era nota ai fan già da qualche tempo. Alla metà degli anni 90, mentre compilavano la Beatles Anthology, i fab four sopravvissuti (all’epoca tre) si erano ritrovati per la prima volta insieme in studio dopo un quarto di secolo, per lavorare su alcuni “inediti”. Si trattava, in realtà, di cassette di abbozzi registrati da John Lennon ben dopo lo scioglimento del gruppo, gentilmente concesse da Yoko Ono per l’occasione. Da quelle session erano uscite Free As a Bird e Real Love, entrambe piuttosto dimenticabili. Paul, George e Ringo avevano anche lavorato su Now and Then, ma nel demo casalingo di John la voce era sommersa dal pianoforte. Si era tentato di tirarne fuori qualcosa di decente, alla fine si era rinunciato.
Trent’anni dopo le tecnologie sono però diverse, e la cassettina ritrovata da Yoko non ha perso il suo valore – in fondo, quante cassette con la voce di Lennon rimangono al mondo? Lavorando sul documentario The Beatles: Get Back (2021), il regista Peter Jackson e i suoi collaboratori sviluppano, grazie al machine learning, un sistema per “ripulire” le voci dei Beatles da basi e disturbi… et voilà, John ora canta a cappella, pronto per essere arrangiato. Poco importa che la canzone fosse ancora in fase embrionale (lo suggerisce il testo, che in alcune parti sembra un riempitivo in attesa di idee migliori). Paul suona la sua parte di basso, manda i file a Ringo che aggiunge la batteria, si registrano gli archi ad Abbey Road. George è morto e non può più suonare – anzi no: ci sono gli abbozzi delle sue parti del 1995, «e così», spiega McCartney nel corto documentario firmato dallo stesso Jackson (si può vedere su YouTube) «ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare un assolo di chitarra slide nello stile di George». Un po’ di mix, un po’ di ritocchi e «Wow, this is it. Now it’s a Beatles record». L’intera operazione – che prevede anche la ristampa delle due celebri antologie rossa e blu – potrebbe facilmente essere derubricata a ennesimo raschiamento del fondo dei barili del pop. Una emozionante curiosità per i fan entusiasti, un deprecabile vilipendio di cadavere con relativa (e capitalistica) estrazione di profitto per i pessimisti che vedono ormai il barile mezzo vuoto, o vuoto del tutto. In realtà la pubblicazione di Now and Then è un evento piuttosto interessante per capire che cos’è oggi la cultura pop, e soprattutto chi siamo noi esseri umani che in essa viviamo completamente immersi, orecchie comprese.
Il corto di Jackson ci fa ascoltare un Paul McCartney che mette in scena gli stessi dubbi che toccano ascoltatori e fan. «È qualcosa che non dovremmo fare?». La risposta è prevedibilmente autoassolutoria: John sarebbe contento, perché non ha mai avuto paura di sperimentare con le tecnologie. L’intelligenza artificiale è qualcosa a cui i Beatles sarebbero stati molto interessati. È vero, e se oggi tutta la musica registrata che ascoltiamo suona così è anche perché, intorno al 1965-66, i Beatles e i loro collaboratori a Abbey Road hanno inventato nuovi modi e nuove macchine per registrarla. La stessa pratica di concepire e incidere il pezzo a parti separate, in momenti diversi, è molto più “filologica” rispetto ai vecchi Beatles dell’impossibile idea di averli tutti insieme anziani in studio.
Certo, ora alcuni di loro non ci sono più, e ci rimangono solo come voci registrate, spettri del passato. Now and Then tocca in effetti un nervo scoperto nella riflessione sulla cultura pop contemporanea, ossessionata dalla retromania. Simon Reynolds e Mark Fisher avevano preso in prestito da Derrida il concetto di hauntologia (crasi fra to haunt, infestare, e ontologia) per descrivere la persistenza del passato sonoro nella contemporaneità. Le voci registrate “infestano” il nostro presente perché ci rivelano una assenza: quella dell’uomo o della donna a cui quella voce appartiene, o apparteneva. È qualcosa che sta alla base dello stesso rapporto degli esseri umani con il suono registrato, fin dall’inizio. Quando le Edison Industries sviluppano il primo fonografo commerciale, nell’Ottocento, fra le possibili applicazioni della nuova tecnologia inseriscono, prima ancora della musica, la possibilità di conservare la voce di chi non c’è più. Il celebre cane che ascolta un grammofono nel logo di His Master’s Voice / La voce del padrone, è in realtà accucciato – nel dipinto originale da cui il logo è tratto – sulla bara del padrone morto. È un riflesso molto umano, rivelatorio di come le tecnologie che hanno plasmato la popular culture siano da sempre incorporate in noi. Uno dei modi più potenti in cui la nostra individualità viene preservata nel ricordo di chi ci sopravvive è proprio attraverso l’unicità della nostra voce. Provate a pensarci: ricordate la voce di chi non c’è più?
Il corto di Jackson è costellato di considerazioni dei tre Beatles sopravvissuti sulla voce del loro amico morto. «To hear John’s voice, that’s a thing that we should cherish» dice George. E Paul: «è stata la cosa più vicina ad averlo di nuovo con noi nella stanza». Alla fine, di tutta l’operazione Now and Then – commerciale, sì: la cultura pop produce profitto, prendere o lasciare – il vero momento di emozione arriva durante il documentario, quando per qualche istante ascoltiamo la voce di John “ripulita”. È lui e allo stesso tempo è artificiale, innaturale. Qualcosa nella sua grana rivela l’intervento del software, il suo essere stata scolpita, estratta, generata da un’intelligenza artificiale. Ed è qui che siamo, nella cultura pop contemporanea: divisi fra macchine e algoritmi che ascoltano e suonano per noi, e l’elemento insopprimibilmente umano delle voci e del pensiero che li alimentano. I Beatles e la loro ultima canzone (ma sarà vero?) ci lasciano almeno questo.