Domenicale, 14 novembre 2023
Sulla lingua francese
A Villers-Cotterêts, nel cuore della Piccardia, è stata appena inaugurata la Cité internationale de la langue française, uno di quei sacrari culturali di cui solo i francesi sono capaci e che mette in mostra il più immateriale dei beni culturali di una nazione: la sua lingua. Il presidente Macron non ha scelto a caso il luogo dove innalzare, come ogni altro presidente francese, un monumento a sé stesso: la residenza di caccia di Francesco I, da dove il sovrano nel 1539 promulgò l’ordinanza che fece del francese lingua di Stato e lo sostituì al latino.
L’immenso castello rinascimentale magnificamente restaurato ospita itinerari di visita che mescolano la scoperta della lingua con la storia dei luoghi, nello sforzo di ancorare la Cité al territorio piccardo devastato dalla deindustrializzazione. La sezione più propriamente dedicata alla lingua illustra la sua evoluzione nello scritto e nel parlato, con percorsi interattivi e giochi dove si può anche sentire la ricostruzione della voce e dell’accento di Francesco I. Dispositivi multimediali presentano documenti e testi provenienti dai diversi luoghi ed epoche e raccontano la storia della lingua e della sua diffusione sia come strumento di cultura che di dominazione. Il percorso prosegue in una galleria di scrittori e altri artisti, con un richiamo a Molière che qui rappresentò il suo Tartuffe, fino alla grande biblioteca cartacea e virtuale dove un bibliotecario invisibile, mosso dall’intelligenza artificiale, risponde alle sollecitazioni del visitatore e gli compone la sua biblioteca ideale.
La Cité, che la direzione si accanisce a non voler chiamare museo, è l’ennesima espressione dell’inestinguibile ambizione della Francia di essere un attore mondiale e di usare la propria lingua come strumento di influenza. È forse il tempio che mancava alla Francofonia, imitazione in chiave linguistica del Commonwealth che i francesi hanno inventato per contrastare la potenza culturale anglofona e che oggi sottilmente si traveste affermando di promuovere non soltanto la lingua francese ma anche la diversità linguistica. L’impostazione concettuale della Cité si sforza appunto di mettere in evidenza la dimensione multiculturale del francese, la sua diffusione ovunque nel mondo e l’arricchimento che trae dal fatto di essere praticato da locutori di lingue diverse.
Ma il progetto ha anche finalità interne e intende ravvivare il sentimento di appartenenza dei francesi alla loro lingua e alla loro cultura in un momento in cui la società è sempre più frammentata e proprio nella conoscenza del francese si apre la faglia della disgregazione. Il centro di Villers-Cottêrets avrebbe dovuto essere inaugurato il 19 ottobre ma proprio quel giorno si sono tenuti i funerali del professore di francese Dominique Bernard, assassinato da un fanatico islamico ad Arras. Il “separatismo”, come viene chiamato in Francia il comunitarismo etnico-religioso, attacca prima di tutto la lingua e il suo spirito quando prende di mira gli insegnanti e i disegnatori di Charlie Hebdo, espressione dell’impertinenza e dell’ironia anche brutale del francese. «La lingua è lo strumento contro la regressione», ha affermato Macron mentre il suo ex ministro dell’istruzione Pap Ndiaye ha chiesto maggiore severità nell’ortografia. È una vecchia battaglia quella dei francesi per la loro lingua e il loro accanimento a conservarla, prigionieri dell’illusione che una lingua chiara e corretta possa rendere chiara e corretta la realtà. Ma la realtà è fatta di mille dialetti e voler conservare una lingua è come voler conservare una nuvola. Il cambiamento è nella sua natura, unico antidoto contro l’estinzione.
La professoressa Barbara Cassin che ha concepito il percorso espositivo della Cité afferma che «Una lingua non appartiene a nessuno», volendo così assicurare al francese la sua indipendenza dalla Francia e la sua universalità. Si dovrebbe meglio dire che ogni lingua non appartiene a governi o accademie, ma solo a chi la parla e così in quella lingua acquisisce dei diritti, primo fra tutti quello di usarla e di piegarla al suo pensiero. In un Paese dove l’Académie française proclama di volta in volta le parole ammesse ed espulse dalla lingua, parlare corretto non è cosa da poco e viene sentito come un dovere civico. Tutto il contrario di quel che si fa da noi, dove meno chiaro è il significato, più alto è il valore dell’enunciato. Se i francesi hanno un’esagerata riverenza per la loro lingua, noi troppo spesso non ne abbiamo alcun rispetto. Basti pensare all’abuso degli anglicismi e alla nostra incapacità di coniare neologismi, segno che consideriamo perdente la nostra lingua e alla fine noi stessi inadeguati alla modernità. Ma per il fatto di non essere rigidamente codificato, l’italiano ha una sua forza propria. Nutrita dai dialetti e dalle lingue regionali, porta avanti un lessico diversificato e duttile che lo rende più duraturo. Mentre il francese, preciso e limpido, geometrico e monumentale inchioda i significati ma invecchiando sprofonda nelle voragini del tempo, l’italiano vago e fumoso, ciancia senza dire e poi smentisce, sguazza scorretto nel pressappoco e così non si fa mai prendere dal tempo. Diceva il professor Sabatini che l’italiano è come un ghiacciaio che rotola su sé stesso e porta alla luce parole rimaste inabissate per secoli riuscendo ancora a capirle e a usarle mentre altre ne seppellisce e, nel suo profondo, a loro volta si conserveranno. Così noi possiamo ancora capire e usare parole come “pulzella” o “fantesca”, anche se con nuovi significati. Il francese no, è corretto oggi e domani non più, quello che ha espulso da sé non lo recupera più e diventa a sé stesso incomprensibile nei secoli. Ma il francese non rinuncia mai a inseguire la chiarezza e la luminosità del pensiero, quella supremazia della ragione che si illude di poter garantire con la sola regola grammaticale, come se bastasse il corretto accordo del participio passato a sventare il male del mondo.