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 2023  novembre 14 Martedì calendario

Biografia di Vincent Van Gogh


la lezione di vincent, cari artisti studiate!Mostre che ispirano. Il continuo riferimento di Van Gogh a libri e letture rende plastico e disperante il confronto con l’odierno panorama culturale popolato di autori pretenziosi, critici manager, mercanti voraciUgo Nespolostefano bombardieri Equilibristi.  Sculture di Stefano Bombardieri, fotografie di Alessandro Montanari e dipinti di Cinzia Bevilacqua, Brescia, Museo Diocesano, fino all’8 dicembre Impossibile non farsi trafiggere dalle parole di Vincent Van Gogh quando scrive al fratello Theo: «Io ho una passione più o meno irresistibile per i libri e ho bisogno di istruirmi continuamente, di studiare, se vuoi proprio come ho bisogno di mangiare il mio pezzo di pane». E il dolore si fa ancora più acuto se ci scopriamo a vivere immersi in tempi in cui il campo estetico-creativo (e non lui soltanto) soffrono il dominio della pesante cortina di cinismo che adora, dà valore e si nutre del ferale assioma, quello del ciò che costa vale, proprio lo stesso che trasforma in inutile ciarpame teorie e progettualità critiche e fornisce agli artisti correnti la certezza della totale inutilità di cultura, lettura e studio. Per questo la lezione di Van Gogh rende ancor più disperante la visione dell’odierno, congestionato panorama culturale popolato di artisti pretenziosi, critici manager, mercanti voraci che, azzerate le fatiche del sapere, leggere, scrivere, pensare, si fidano e danno valore per lo più a giochi, relazioni mondane e a tutte le comode pratiche esteriori fatte di scorciatoie per successi momentanei e dal valore nullo.
Risposte sorprendenti le fornisce la mostra Vincent Van Gogh. Pittore colto al Mudec di Milano (fino al 28 gennaio 2024) curata da Francesco Poli, Mariella Guzzoni e Aurora Canepari dove si mette in scena con grande evidenza la relazione stretta fra l’opera pittorica di Vincent e la sua profonda e totale relazione con i libri. Incentrata su un notevole gruppo di dipinti provenienti dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, la mostra pare concepita per allontanare le sciocchezze degli stereotipi e del banale che accompagnano da sempre la figura e l’opera di un artista che brilla come unico e centrale nel panorama estetico-creativo di sempre.
Francesco Poli mette subito in chiaro come Vincent oggi sia considerato figura mitica mondiale e persino vera icona pop alla luce delle sue tribolate vicende biografiche, quelle che hanno facilmente e molto superficialmente indotto un pubblico immenso e assai poco acculturato a considerare la sua opera frutto esclusivo della sua figura di artista maudit, genio e follia, una lettura tanto definitiva quanto vacua.
Molto più utile invece dare da subito peso al ruolo della malinconia che in Vincent segna una sorta di tormento interiore che lo accompagnerà sempre e scoprire come in una lettera a Theo affronti con profondità la questione: «Invece di cedere alla disperazione ho preso la via della malinconia attiva, in altri termini ho preferito la malinconia che spera, che aspira, che cerca a quella che, cupa e stagnante, dispera». E sono i libri i compagni eterni e fedeli, quelli in cui egli cerca un impegno etico, la dirittura morale e – come scrive Mariella Guzzoni – «anche nei momenti più avversi, quando tutti i pazienti intorno a lui (recluso volontario nella casa di Saint-Rémy) sono lasciati a vegetare senza neppure un libro, egli rimane ben saldo e fiducioso nel suo credo di sempre: “se non studio, se non cerco più, allora sono perduto”».
È lo studio senza tregua che lo accompagna sin dagli anni della prima giovinezza. Già nel 1873 a 16 anni lavora a Londra nella Galleria d’Arte della Goupil & Co ed è già un autentico divoratore di libri capace di consigliare al fratello Theo, più giovane di quattro anni, la lettura di libri d’arte, riviste come la «Gazette des Beaux-Arts» e tanto altro come visitare mostre e non perdersi il libro di Théophile Thoré Musées de la Hollande. Vincent legge in quattro lingue e – come ricorda Guzzoni – «mette a confronto secoli d’arte e di letteratura, da Ovidio a Shakespeare, da Voltaire a Carlyle, da Bunyan a Dickens, da Michelet a Zola».
Negli anni tra il 1869 e il 1876 in cui lavorerà per Goupil & Co all’Aia, a Londra e a Parigi, Vincent si forma una conoscenza vasta, sterminata di tutta l’arte europea e lo fa sia visitando costantemente i musei per studiare dal vivo le opere d’arte e poi attraverso la visione di stampe e fotografie che maneggia per ore ogni giorno.
A 23 anni sente troppo stretto il vincolo del suo lavoro di impiegato e, in pari tempo, si rende conto che il commercio dell’arte non fa parte delle sue attitudini già profondamente fatte di sentimento e ragioni mistiche, quelle che alimentano la sua profonda passione religiosa.
Nel 1877 decide di studiare teologia e, tornato ad Amsterdam, intraprende lo studio del greco e del latino per gli esami d’ingresso all’Università. Tre anni dura la fase religiosa e nel 1878 frequenta la scuola preparatoria per i predicatori di Laken. Parte poi per la regione mineraria del Borinage per tentare la via del predicatore. Scrive: «Il povero è amico del povero» e dà tutto sé stesso alla causa dei diseredati. Ma non viene compreso, e accettato. La sua delusione è profonda. Vincent non si lascia però travolgere dalla disperazione. Si rifugia nei testi di Jules Michelet e studia l’Histoire de la Révolution Française ritrovando nel monumentale testo la stessa idea di rivoluzione popolare che cercherà nei ritratti e nei suoi personaggi. Scrive ancora: «Ho studiato un poco alcune opere di Victor Hugo e un bellissimo libro su Shakespeare. Ho intrapreso lo studio di questo scrittore da tempo. È magnifico come Rembrandt. Shakespeare sta a Charles Dickens o a Victor Hugo come Ruisdael sta a Daubigny e Rembrandt a Millet».
A 27 anni decide della sua vita. Sarà pittore e da subito mette in chiaro che «i libri, la realtà e l’arte sono una cosa sola per me». Autentico manifesto di poetica, sicuro progetto teorico che sempre si porterà dentro e lo guiderà, come testimoniano le intensissime lettere a Theo, in un’interrotta e profonda meditazione. Ricorda Mariella Guzzoni come i suoi temi siano ricorrenti, lo sguardo verso i poveri, le ingiustizie, il duro lavoro, la terra, i diseredati, la natura, l’indagine dell’animo umano. Egli sa che «l’arte è lotta, nell’arte bisogna metterci la propria pelle». Proprio quello che Vincent farà nel breve decennio che avrà fine il 27 luglio 1890 con un colpo di pistola.
A Parigi nel 1886 conosce la pittura impressionista e si appassiona al travolgente giapponismo che invade la capitale. Ma la metropoli lo affatica e nel febbraio 1888 parte per la Provenza sicuro di trovarci il “suo Giappone”. Gli anni di Arles saranno quelli della piena maturità espressiva, quello delle opere celebri, autoritratti e ritratti.
Scrive alla sorella Wil: «Vorrei fare dei ritratti che tra un secolo alla gente di quei tempi sembrassero apparizioni».
Dopo il turbolento incontro con Gauguin è l’ora del volontario internamento all’ospedale psichiatrico di Saint-Paul de Mausole. Due anni dopo si trasferisce a Auvers-sur-Oise, un villaggio nella campagna vicino Parigi dove vive lo psichiatra e collezionista Dottor Gachet. Vincent non fa fatica a ravvisare in lui «l’espressione desolata dei nostri tempi (…) non destinata ad essere compresa».
È la malinconia che domina il ritratto di Gachet, lo sanno entrambi e la stessa postura del dottore è quella dell’homo malinconicus düreriano. Nell’opera dipinta «con la velocità di un lampo per provare a fissare per sempre un non so che di eterno» i libri non mancano e sono i due volumi gialli dei Goncourt, Manette Salomon Germinie Lacerteux, romanzi che Vincent conosce molto bene.
La malinconia che travolge Vincent e Gachet è – come ricorda Jean Clair – la stessa malinconia moderna, totale, radicale e anche oggi nessuna mathesis universalis può rimettere insieme le disjecta membra del reale.
I due, come in uno specchio, lo sanno. Noi anche.