il Giornale, 14 novembre 2023
Ken, una vita da «signor nessuno»
A questo punto non gli resta che sperare nell’Oscar come miglior bambolotto non protagonista. Parliamo di Ken, e chi sennò? Il compagno, partner, chiamatelo come volete di Barbie, lei sì il giocattolo più famoso della storia, la cui estetica è stata recentemente rilanciata dal bizzarro film diretto da Greta Gerwig. Ebbene nemmeno questa popolarità di riflesso è servita al muscoloso assistente balneare per entrare nella National Toy Hall of Fame, l’istituzione legata allo Strong national Museum of Play di Rochester, New York, che ogni anno accoglie i giocattoli più popolari. L’ennesimo smacco per quello che nel film è ritratto come un maschio insipido e un po’ tonto, totalmente asservito alla personalità della carismatica fidanzata.
«Non è stato kenough», ha scritto il Washington Post raccontando questa storia di ordinaria umiliazione, giocando sulla parola enough, abbastanza. Ken era nella rosa dei dodici giocattoli tra cui i componenti del comitato di esperti e il pubblico poteva scegliere i tre da inserire nella Hall of Fame. Anzi, i quattro, perché per celebrare il venticinquesimo anniversario del premio quest’anno era stato deciso che i fan potevano votare anche un altro candidato da una lista di giocattoli «dimenticati», nominati più volte negli scorsi anni ma mai scelti. Ebbene, Ken ha fallito anche qui, venendo scartato a favore delle figurine del baseball (come si dice «ce l’ho, ce l’ho, mi manca» in inglese?), dei Cabbage Patch Kids, certi fantocci paciocconi mille miglia lontani dalla figaggine hollywoodiana, dei Corn Popper, la linea di giochi a rotelle della Fisher Price per un pubblico di piccolissimi, e dei fucili in plastica della Nerf, quelli sì roba da macho.
Insomma, Ken non ce la fa proprio a fare carriera, a vivere la sua vita senza la «paghetta» di Barbie. Nemmeno nell’anno in cui ha preso la faccia cinematografica di Ryan Gosling (mica Danny DeVito) e la sua ballata «I’m Just Ken» è stata ascoltata in streaming almeno 88 milioni di volte, un capolavoro passivo-aggressivo di autocompatimento, con un ritornello che fa: «Sono solo Ken/ In qualsiasi altro posto sarei un 10/ È il mio destino di vivere e morire in un vita di fragilità bionda?». Domanda a cui i giudici della Hall of Fame dei giocattoli pare aver già risposto. Affermativamente.
Non ha mai avuto una vita semplice il principe consorte della bambolitudine, fin da quando comparve sulla scena, nel 1961, due anni dopo Barbie, di cui rappresentava lo specchio appannato al maschile. Il pubblico richiedeva un sogno d’amore per il personaggio biondo che fa impazzire il mondo, ma i dirigenti della Mattel disegnarono un passatempo noioso, una specie di accessorio in costume da bagno rosso e sandali di sughero. Poi il suo personaggio fu un po’ sceneggiato, comparvero i pettorali, la tartaruga, qualche mestiere alternativo (poche decine di carriere, altro che le 250 impersonate da Barbie in oltre sessant’anni), il look si affinò, lo smoking fu tolto dalla naftalina perché, che diamine, a qualche ballo il nostro amico doveva pur partecipare, se non altro per accompagnare la «reginetta». Ma Ken non si è davvero mai emancipato, il suo tetto di cristallo è rimasto sempre là, nessuno squarcio. Conobbe anche l’onta delle corna, il povero ragazzo, fu una scappatella di Barbie, avvenne nel 2004, quando fece la sua comparsa Blaine, un tizio australiano con l’hobby del surf. Disse allora Barbie: «Dobbiamo prenderci una pausa di riflessione, Ken». «Ken chi?», rispose lui.