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 2023  novembre 14 Martedì calendario

Intervista a Brando De Sica

Si fa presto a dire figlio d’arte: «Il regista – dice Brando De Sica – è come il capitano di una nave, l’intermediario tra il mondo dei sogni e quello empirico, sul set è come un sacerdote, ma anche un po’ come la polena della nave, sospesa tra l’oceano, che rappresenta l’inconscio, e l’umano, cioè le vele, le ciurme, i timoni». Nipote di Vittorio, figlio Christian e di Silvia Verdone, De Sica dirige il suo primo lungometraggio Mimì. Il Principe delle Tenebre (dal 16 nei cinema) scegliendo come protagonista il neo-divo di Mare fuori Domenico Cuomo e ambientando la sua vicenda di sangue, amore e bullismo, in una Napoli non convenzionale, scura come il vulcano, blu come le notti in cui i vampiri tornano in vita: «È un film sull’importanza dei sogni e sulla fuga dalla realtà. Una ballata di sognatori».
Il suo è un cognome pesante, destinato a provocare invidie e severità di giudizi. Ci vuole coraggio per scegliere questo mestiere in una famiglia così blasonata?
«Direi che ci vuole coraggio, in generale, nel decidere di fare questo lavoro. Cito Wes Anderson, sa cosa disse una volta ai suoi studenti? “Il primo consiglio è: non fate i registi, cambiate obiettivo».
Lei non lo ha seguito.
«Sì, ma non è una questione di famiglia, non è che tutti facciamo la stessa professione, mia sorella, per esempio, ne ha scelta un’altra. Per me è stato un po’ come soccombere a una dannazione, come una droga, non ne potevo fare a meno, un po’ come quando le suore ricevono la chiamata da Dio. Ho sentito una voce, non potevo evitare di ascoltarla».
Sapeva che le avrebbero imputato tutti il fatto di essere nipote di Vittorio De Sica e figlio di Christian. Come ha superato l’ostacolo?
«Ho avvertito da subito una grande responsabilità, imparare la regia è stato un lavoro complesso, forse anche per il nome che porto, ma è anche vero che chiamarmi De Sica non è una colpa. Ho studiato, mi sono laureato alla University of Southern California School seguendo i corsi della School of Cinematic Arts, ho fatto una lunga gavetta, ho girato corti, film pubblicitari, sono stato aiuto di tanti registi. L’esordio è arrivato a 40 anni, ed è anche successo che quello che avrebbe dovuto essere il mio primo film sia stato interrotto sul nascere per motivi produttivi. Un’esperienza bruttissima».
Quando ha capito che questo sarebbe stato il suo mestiere?
«Ero molto piccolo, ho cominciato a guardare un sacco di film di genere diversi, horror, ma anche quelli che mi faceva conoscere mio nonno materno, Mario, pellicole di Lubitsch, Renoir, Kurosawa. Mi chiudevo dentro quei mondi filmici e lì trovavo la mia essenza, la mia passione. Sapevo che non avrei potuto resistere all’idea di mettere in scena tutte quelle suggestioni, da bambino organizzavo recite a casa, mi truccavo. Avevo un’attrazione incredibile per il make-up e per gli effetti speciali, andavo spessissimo nel negozio di Dario Argento “Profondo rosso”. Poi i miei mi hanno regalato una piccolissima telecamera e allora ho cominciato a girare».
Chi è il regista da cui ha imparato di più?
«Voglio molto bene a Matteo Garrone, è la persona che mi ha insegnato più cose sul mestiere della regia».
Il suo è un film horror, ma è anche la storia di un ragazzo bullizzato. Perché ha voluto affrontare questo tema?
«Il mio è un film sulla non accettazione di se stessi e sulla ricerca di identità in quel passaggio difficile dalla pubertà all’adolescenza. È un’età in cui si ha bisogno di trovare un gruppo di appartenenza, il mio Mimì diventa vampiro, ma lo è in modo simbolico. I vampiri non si riflettono negli specchi, non si vedono, molti ragazzi hanno il problema di sentirsi invisibili e, dal loro disagio, nasce la voglia di fuggire dalla realtà. Viviamo in una società dove si cerca sempre di catalogare le persone e le cose, per controllarle meglio, e invece poi succede che la vita continui a sorprenderci».
Perché ha scelto di ambientare a Napoli la sua storia?
«Amo Napoli con tutto me stesso, è la città prediletta. Le mie origini sono tutte legate alla Campania. Gli avi di mio nonno Vittorio erano di Giffoni, mentre la famiglia di nonno Mario era di Bacoli. Sono napoletano, anche se sono nato a Roma».
Napoli è protagonista di film celebri di Vittorio De Sica e anche suo padre ne ha girati vari in zona. Lei è il primo della famiglia che racconta la città in chiave horror. Come mai?
«A Napoli, nella chiesa di Santa Maria della Nova, è stata trovata la tomba di Vlad Tepes III l’impalatore, voivoda di Valacchia passato alla storia come il Conte Dracula. Ho pensato al colore rosso, che è del sangue, ma anche del pomodoro sulla pizza, e poi ai voli di pipistrelli sulla sagoma del Vesuvio. Napoli è una città stratificata, a-temporale, una città magica, potente, che ha ospitato importanti circoli di maghi e di alchimisti».
Nel film la musica dei neo-melodici ha ruolo centrale, anche se i suoi rappresentanti sono i cattivi della vicenda. Perché?
«Avevo in mente i “musicarelli” napoletani stile Nino D’Angelo, all’inizio avevo pensato di girare un musical. Mi è piaciuto scegliere un tipo di musica molto teatrale, canzoni che fanno spettacolo. Più che cattivi, i neomelodici del film sono ragazzi che non si accettano, dalla loro frustrazione nascono odio e rabbia». —