Corriere della Sera, 13 novembre 2023
Amianto, un incubo che non finisce
A Casale Monferrato, la scorsa settimana c’è stato un funerale. Un uomo di 61 anni, che non aveva mai lavorato in quella fabbrica. «Versamento pleurico» diceva il referto della radiografia ai polmoni fatta nel maggio del 2022. Per chi è della zona, così come per chi è di Cavagnolo in provincia di Torino, di Rubiera in Emilia, del quartiere di Bagnoli a Napoli, quelle due parole equivalgono a una sentenza, perché significano quasi sempre mesotelioma, il tumore dell’amianto. Nadia Presotto invece se n’è andata pochi mesi fa. Aveva 69 anni. Era una pittrice. Aveva dedicato il tempo che le restava a scrivere un libro, «Siamo fatti di nulla», dove racconta la malattia, e il dolore dell’anima che si prova per un destino così ingiusto.
Queste sono le ultime vittime dell’ecatombe causata dai quattro stabilimenti italiani dell’Eternit, che produceva manufatti in amianto. Nella cittadina del basso Piemonte muoiono di mesotelioma ancora cinquanta persone all’anno. I vecchi operai ormai non ci sono più. Adesso tocca ai civili. In Italia, ogni anno quasi seimila persone. E nello stesso arco di tempo i casi di malattia asbesto-correlate ammontano a novemila. Questi i dati, questo lo stato delle cose. Ma non ne parla più nessuno. Tutti portati a scansare, ad andare oltre. Troppo devastante assistere impotenti ad una strage continua, perpetuata attraverso uno dei tumori più dolorosi, senza possibilità di intervento.
La città-martire
A Casale Monferrato muoiono tuttora
ogni anno 50 persone
di mesotelioma
Non è una questione locale. Non c’è solo Casale Monferrato, dove si produceva circa il 40% dei materiali contenenti amianto dell’intera penisola. Si arriva fino a Biancavilla, in Sicilia, nell’entroterra catanese dove si estraeva la fluoroedenite gemella dell’amianto. È ancora aperto il caso giudiziario della Fibronit di Bari, in Puglia, oppure quello del sito di Broni, in Lombardia. Senza dimenticare le cave dove si estraeva la fibra, come quelle di Emarese e Balangero, in Valle d’Aosta e Piemonte.
La normativa
Le accuse della Corte
di giustizia europea
che nel 1990 ci dichiarò inadempienti
Cominciò tutto all’inizio del secolo scorso. La «fabbrica» per eccellenza era arrivata a Casale Monferrato nel 1906 cominciando subito ad assumere maestranze, gente orgogliosa di finire in quel casermone. Il mestiere di operaio era un passo avanti nella scala sociale rispetto alla malora della vita contadina. C’era da mettere in produzione il brevetto creato da uno scienziato austriaco e portato in Italia dall’ingegnere Adolfo Mazza di Genova. Un prodotto innovativo che, mischiando cemento e amianto, dava un materiale indistruttibile, capace di resistere al fuoco. Fu per questo che lo chiamarono Eternit, dal latino aeternitas, eternità. Per sempre.
Alla fine degli anni Sessanta, qualche voce cominciò a diffondersi. Qualcuno sapeva. I pochi lavoratori che, spaventati dalle morti dei loro colleghi più anziani, decidevano di andarsene facevano fatica a trovare un nuovo posto. «Sono tutti malati», era questa la vox populi sui reduci dell’Eternit. Succedeva lo stesso nelle fabbriche sorte in tutta Italia. Se conosciamo questa tragedia immane il merito è anche, o soprattutto, degli ex lavoratori e dei sindacalisti che lottarono per rivelare l’entità di quel che stava accadendo. L’Eternit chiuse nel 1986, il ramo italiano dell’azienda venne dichiarato fallito. L’amianto venne messo fuorilegge pochi anni più tardi. Oggi la fabbrica è un sarcofago di cemento. Le bonifiche sono ancora in corso ovunque. C’è un ritardo evidente.
All’appello manca qualcosa, o qualcuno. Per paradosso, lo sottolineò proprio la sentenza con la quale nel 2016 la Corte di cassazione annullò la condanna contro il padrone svizzero dell’Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny, dichiarandola prescritta. Le parole dei giudici evidenziano un risvolto fin troppo spesso taciuto. Il problema delle «patologie tumorali» venne «posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni 80». L’Italia «non adottò per tempo i provvedimenti dovuti» e la Corte di giustizia europea, «dopo una procedura di infrazione promossa nel 1990, dichiarò inadempiente» il nostro Paese all’obbligo di dotarsi di una normativa anti-amianto. C’è stata «lentezza su problemi di tale fatta». Intanto si continua a morire. Ma non chiamatela fatalità, e non date la colpa al destino avverso.