La Stampa, 13 novembre 2023
La solitudine palestinese
È a San Francisco che potrebbe saldarsi un terzo asse diplomatico intorno alla guerra fra Israele e Hamas. Nella città californiana si incontrano fra due giorni, mercoledì, il presidente americano Joe Biden e il Presidente Cinese Xi Jinping. Appuntamento molto atteso, nel mezzo di due guerre e nel pieno sviluppo di un cambiamento economico che sta riscrivendo i poteri mondiali.
Le relazioni dei due paesi attraversano un progressivo deterioramento. Non si attendono dunque grandi annunci. Ma le attese sono alimentate da indiscrezioni uscite dalla stessa Casa Bianca – riporta la Bbc. Ai giornalisti viene citato anche un punto sul Medioriente: «A parte i disaccordi centrali su scambi commerciali e competizione, la richiesta più urgente per il Presidente Biden alla Cina sarà quella di usare la sua influenza per mettere limiti al coinvolgimento dell’Iran in risposta al conflitto in Gaza».
L’Iran ancora al centro, dunque, del puzzle mediorientale. Lo scontro questa settimana ha raggiunto uno stallo crudele. Fatto di sangue e orrore per migliaia di bambini e civili. Eppure neanche questo crudo bilancio sembra scuotere i due fronti diplomatici in campo.
Da Israele il premier Benjamin Netanyahu, che pur ha alla fine concesso una tregua umanitaria di alcune ore giornaliera, continua a respingere ogni idea di limitare le operazioni alle regole internazionali, e procede con devastanti bombardamenti indiscriminati.
I Paesi arabi d’altra parte, freschi di un incontro sabato a Riad, al vertice straordinario congiunto della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, convocato dall’Arabia Saudita per tentare di allineare le posizioni dell’Islam, nonostante il grande disgelo formale – hanno partecipato il presidente iraniano Ebrahim Raisi, e Bashar al-Assad, il presidente siriano, odiati fin qui dalle monarchie sunnite – non hanno deciso nulla. Parole di fuoco certo, ma l’embargo sull’export di petrolio, arma letale, non a caso proposta dall’iraniano Raisi, non è stato approvato. «Alla fine dal summit di Riad escono solo parole e photo opportunity», ha scritto ieri su questa testata Giordano Stabile, la cui analisi fa ben capire le dinamiche di questo vertice.
Da cosa nasce questa paralisi dei due fronti?
Parto da due ricordi per formulare due domande. Anni ‘70, scenario di una radicalizzazione che ha formato (anche in Occidente) i ricordi, l’opinione e la psiche dello e sullo scontro fra Israele e mondo arabo.
Il primo ricordo è dedicato a un eroe di Israele, Yonathan, detto Yoni, di cognome Netanyahu. Come il Premier Bibi, che è suo fratello.
Yoni era un militare, un tenente colonnello di un reparto scelto dell’esercito di Israele, e uno scrittore. Nato a New York nel 1946, si arruolò nel 1973 per la guerra dello Yom Kippur da cui uscì con onori militari. Morì tre anni dopo nel 1976 a Entebbe in Uganda in una operazione speciale per liberare gli ostaggi ebrei di un dirottamento aereo. Il suo nome e quello di Entebbe sono rimasti nei manuali militari, sinonimi di audacia e di minimo spargimento di sangue. Morirono in 4: 1 ostaggio ucciso dai militari israeliani, 2 ostaggi uccisi dai militari ugandesi, e il comandante Yoni. Appunto.
La vita pubblica di Netanyahu è sempre stata segnata da questo eroismo. Domanda: perché oggi invece il Netanyhahu premier non intende accettare nessuna azione che rientri nel rispetto delle regole umanitarie internazionali?
Secondo ricordo, per seconda domanda. Siamo sempre al 1973, anno come si diceva che dà forma al Medioriente. Il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccano Israele per riconquistare la penisola del Sinai e le alture del Golan, che avevano perso con la sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni del 1967. È una sorpresa che poi portò alle dimissioni di Golda Meir, e del ministro della difesa Moshe Dayan. Gli arabi non vinsero, ma Re Faysal d’Arabia, che si era impegnato con il presidente egiziano Anwar al-Sadat a usare «il petrolio come arma», convocò insieme all’emiro del Kuwait il 16 ottobre l’Opec, in cui si decise di imporre la riduzione della produzione di petrolio, per aumentarne il prezzo e minare il sostegno a Israele in Occidente. Il 19 dello stesso mese fu decretato l’embargo sulla vendita di greggio agli Stati Uniti per il loro sostegno agli israeliani, seguito dall’embargo ai Paesi occidentali che assunsero la stessa posizione. La crisi “petrolifera” si rivelò un’arma molto efficace contro il nostro mondo. Domanda: oggi un discendente di Re Faisal governa l’Arabia Saudita, perché non vuole adottare l’embargo?
Le risposte a questi quesiti ci raccontano anche un po’ del perché questa guerra sia così disumana, e così indecisa. I conflitti degli anni ’70 nascevano da forze espansive: gli stati arabi e Israele si trovavano in condizioni di sopravvivenza- economica, egemonica, territoriale. Quelle stesse nazioni sono oggi, nella odierna complessità, tutte in condizioni di maggiore debolezza.
Lo stato di Israele nei Settanta portava ancora addosso le paure, le instabilità della sua collocazione territoriale, ma aveva anche una coesione interna formidabile. Oggi è da tempo un Paese fra i primi al mondo per integrazione internazionale, sviluppo tecnologico, livelli di vita, e soprattutto, forte dialettica democratica al suo interno. Negli ultimi anni la dinamica politica dentro il paese si è articolata con forte polarizzazione sui temi chiave – il rapporto con la occupazione del West Bank, e soprattutto la identità della nazione, come dimostrano i lunghi nove mesi di proteste contro la riforma della giustizia. Raduni enormi e stabili per difendere l’equilibrio dei poteri dello Stato. Una causa squisitamente politica, che non avrebbe attecchito in nessun paese organizzato intorno a un permanente stato di pericolo e allerta militare. Israele oggi ha una dialettica interna molto forte, in cui le parole destra e sinistra hanno un senso e cause e approcci diversi. Parte di uno sviluppo democratico pieno, che, come in tutte le democrazie, si accompagna a una lotta politica esplicita. La crisi del governo Netanyhahu, nonostante si sia in piena guerra, ne è il caso perfetto:quanto, nelle sue decisioni attuali, pesa la difesa del suo incarico?
Per i Paesi arabi siamo invece alla storia di sempre, affogata da divisioni settarie religiose e controllo del petrolio. Tuttavia anche in questo caso ci sono cambiamenti. Non c’è accordo sul boicottaggio petrolifero perché si ha timore di mettere in campo una misura che, a differenza degli anni 70, oggi non è più così efficace. Gli arabi non sono più i soli signori del petrolio, e soprattutto il petrolio non è più il re dell’energia. Con il tempo la difesa della ricchezza nazionale ha fatto prevalere nel mondo islamico una prudenza che si è caricata di opportunismo. Non a caso la maggior parte di questi stati ha firmato gli accordi di Abramo che avrebbero cancellato nei fatti ogni pretesa palestinese a un proprio Stato.
I palestinesi, è vero, sono un popolo abbandonato. Ma fra chi li ha abbandonati ci sono stati, troppo spesso, anche i paesi che a parole avrebbero dovuto difenderli. —