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 2023  novembre 11 Sabato calendario

Erri De Luca e il dialetto napoletano


L a lingua madre ama disporre, come una brava mamma napoletana, raccolte di effetti personali per i propri figli che potrebbero tornare loro utili nelle avversità, corredi personali che nel tempo diventano «calli che hanno resistito sotto il guanto dell’italiano». L’ultimo libro di Erri De Luca, A schiovere (Feltrinelli), parte dall’idea di bagaglio inteso nella sua molteplicità di significati, come insieme di cose utili per il viaggio, ma anche di fardello del passato con cui bisogna dar vita a una resa dei conti. Le parole napoletane se ne stanno stipate nei libri come in valigie organizzate da mani sapienti, odorosa biancheria che una madre prepara nel giorno in cui il richiamo della linea d’ombra diventa non più rinviabile per il suo ragazzo.
Zeffunno, Vrénzola, Quèquero, Purpo, Muorzo, Farfariello, Casadduoglio, Bafuogno, Arrassusìa e altre gemme da dire, più che da scrivere. Erri De Luca ne pesca ben 101 dal suo giacimento personale. Parole che sono come maglie della salute, a volte esteticamente discutibili, ma necessarie per resistere al gelo della vita. Parole che sono, nella ruvidezza del parlato, lame affilate che ti orientano per il resto dei giorni. Non importa dove andrai, chi incontrerai e cosa farai: Napoli ti ha marchiato sin dalla nascita, dotandoti di un sistema nervoso elettrico che si accende e si spegne, con quei cinque minuti che potrebbero venirti all’improvviso: per una banale questione di parcheggio o per ribellarsi all’occupazione nazista e dare vita alle «Quattro giornate».
Il napoletano è la continuazione di quel sistema nervoso con altri mezzi. La città, per chi la sa raccontare, è al contempo una maledizione e una benedizione che sfida il principio di non-contraddizione. Questo bagaglio in A schiovere si configura come una vera e propria mappata, prendendo a prestito una delle voci che compongono il «vocabolario napoletano di effetti personali» nato dalla rubrica settimanale che negli ultimi anni lo scrittore partenopeo tiene sulle pagine del «Corriere del Mezzogiorno». Voci che, come fantasmi imbizzarriti, si rincorrono tra le pagine illustrate da Andrea Serio e si offrono al lettore come un arricietto, un ricovero sotterraneo («In tempo di guerra», ci fa sapere Erri De Luca, «l’arricietto è una parola d’ordine. Si scappava al suono lugubre della sirena di allarme per trovare un arricietto nei rifugi sotterranei») in cui il poeta deve avventurarsi per ritrovare l’amata.
Ma quale terreno è più misterioso e meglio rappresenta una perigliosa porta d’ingresso all’Ade (o Averno, per restare in una geografia più consona all’autore) se non quello delle parole, soprattutto le parole che compongono il lessico dell’infanzia? Così, se in quel capolavoro di oltre vent’anni fa che è Montedidio, si trattava di dare un senso alle parole ascendendo («Chi salirà nel monte di Dio? Chi ha le mani innocenti e il cuore puro» recita il Salmo 24 di Davide, citato nel romanzo), in A schiovere è più una discesa verso l’interno. Tuttavia anche nei ricoveri, come durante la guerra, non si sta sicuri. In proposito mi viene in mente un’altra grande scrittrice napoletana, Fabrizia Ramondino, quando scriveva: «Non sto quindi a Napoli sicura di casa». Infatti a Partenope, cioè nel nucleo leggendario del mondo, ci racconta De Luca sfogliando parole preziose e urticanti come Traseticcio, Spilapippe, Fetecchie e Rilorge, non è affatto detto che ce la caveremo, perché «dove il napoletano scortica, l’italiano allevia».
Ecco un altro punto fondamentale. Per definire il corredo delle parole materne, il metodo è in realtà un non-metodo: la memoria. Usata non come schema, perché da sempre per Erri De Luca essa è il frutto di ciò che la risacca lascia emergere indietreggiando dopo l’onda, un dato non sistematizzabile, sostanza salina da cui i ricordi evaporano. È un non-metodo che procede, per l’appunto, A schiovere, l’ultima delle 101 voci del volume: «Modo di dire che indica l’effetto di certi acquazzoni che per il vento cadono di traverso, di sghimbescio. A schiovere va col verbo parlare». C’è sempre l’acqua di mezzo, che sia il mare o la pioggia, perché a schiovere «è la maniera con cui mi vengono le storie, sbucate alla rinfusa da un guizzo di ricordo. Anche le circostanze della mia stessa vita stanno sotto la sigla a schiovere, dove niente è accaduto per progetto». In effetti, si potrebbe chiosare, nella vita di tutti noi nulla accade per un progetto, è la condizione umana a essere irrimediabilmente a schiovere. Per mettere un freno al disordine non abbiamo altra possibilità che volgere lo sguardo indietro alla lingua madre, commettendo il più fatale degli errori: in un istante, Euridice scompare per sempre nell’abisso. Lasciando Orfeo a vagare per la terra, sublimando nel canto un passato che non può tornare.