Corriere della Sera, 12 novembre 2023
Stiamo diventando incapaci di porci domande
«Sei preoccupato per l’arrivo dell’intelligenza artificiale?» diceva un uomo affacciandosi alla porta e l’altro, dalla sua scrivania, rispondeva: «No, sono preoccupato dalla scomparsa di quella naturale». Erano le battute di una vignetta di cui non ricordo l’autore ma che mi sembra emblematica per descrivere i tempi che stiamo vivendo.
Se ripenso ai miei anni giovanili, mi torna spesso in mente lo scrittore Giorgio Voghera e le tante mattinate trascorse insieme al mitico caffè San Marco di Trieste. Giorgio Voghera – figlio di Guido, noto matematico – è stato uno dei grandi rappresentanti della cultura triestina del secolo scorso. Nato nel 1908, è stato l’autore – anche se lo ha sempre negato – del libro Il segreto, pubblicato alla fine degli anni Cinquanta, e di molte altre opere. Aveva lasciato Trieste nel 1939 per via delle leggi razziali, e vi era tornato nel 1948 dopo anni vissuti in un kibbutz per riprendere il suo apparentemente tranquillo impiego in una compagnia di assicurazione.
Il caffè San Marco degli anni Settanta e Ottanta era ancora un vecchio locale fumoso dell’Europa centrale in cui i camerieri si aggiravano con piccoli vassoietti inox tra i tavolini e dove gli avventori bevevano caffè leggendo gratuitamente i giornali o giocando a scacchi. Giorgio Voghera – che è stato il mio primo lettore e che mi ha incoraggiato a scrivere – «riceveva» lì tutti i sabati mattina amici, conoscenti e sconosciuti, offrendo sempre nuovi motivi di discussione: un libro letto, un fatto accaduto, l’analisi di un sogno notturno, la soluzione di una sciarada. Era anche un grande appassionato di osservazione del mondo naturale come me: durante il suo soggiorno in kibbutz aveva lungamente osservato il comportamento delle galline e ne parlavamo spesso insieme. In poche ore, insomma, intorno a lui si materializzava un caleidoscopio di persone portatrici di notizie e di domande che rimanevano, nella loro stravaganza, sospese nell’aria; ne ricordo una in particolare: avete visto cartoline che raffigurano delle nubi? E se non ci sono, quale senso dobbiamo dare alla loro non esistenza?
Penso con grande riconoscenza a Giorgio Voghera e a tutti quei sabati trascorsi insieme; un pensiero che però è velato dall’ombra della malinconia perché mi rendo conto che quel mondo – che era quello della cultura che ha formato l’Europa dalla quale sono nati tutti i grandi pensatori, da Canetti e Hillesum – è irrimediabilmente scomparso; era riuscito a sopravvivere alla grande falcidia del nazismo, ma non è riuscito a sopravvivere allo tsunami della tecnologia che, diventata tecnocrazia, ha invaso e stravolto senza alcun controllo le nostre società avanzate.
La cultura si è trasformata in saper fare. Si è considerati colti se si ha una laurea che certifichi la propria preparazione; più master si hanno, più preparati si diventa e dunque più potere si ottiene; e a chi non può esibire queste «medaglie» non rimane che venir sbatacchiato sulla battigia come un barattolo vuoto. Il sapere è tecnico, e fuori dalla tecnica non c’è salvezza. La prova matematica di ciò l’abbiamo avuta nel tempo del Covid, il tempo del buio della ragione, in cui tutte le persone che hanno osato proporre qualche riflessione critica sono state perseguitate, insultate e derise da una folla di competenti laureati.
Eliminata la cultura, ora ci muoviamo unicamente tra due poli, la tecnica e la politica, e questi due poli, è ormai chiaro, si illuminano a vicenda di una luce sinistra. Cominciano, è vero, a levarsi qua e là i mea culpa di chi si lamenta della perdita del pensiero critico, ma sono mea culpa tardivi.
Recentemente ho riletto un articolo dello psichiatra Giovanni Bollea del 1998 in cui parlava dell’assoluta urgenza di convocare a un tavolo i ministri e le persone competenti per creare un piano capace di controllare e arginare l’enorme influsso che i mezzi tecnologici rischiavano di avere sullo sviluppo neurologico dei bambini.
I dati attuali che la neuropsichiatria ci offre dovrebbero lasciare insonni tutte le persone che hanno a cuore il destino dei nostri figli e il futuro del Paese: l’alcolismo sempre più precoce, il consumo incontrollato di droghe sintetiche accanto ai sempre più diffusi atti di autolesionismo, che giungono a lambire anche i bambini, ci parlano di una devastazione etologica ormai fuori controllo.
La ferocia sanguinaria è una compagna fedele di tutta la storia umana mentre gli istinti autodistruttivi presenti nei cuccioli della nostra specie sono una novità assoluta. Ogni essere vivente – più è evoluto, più questo è vero – possiede un’istintiva voglia di vivere e un’energia innata che lo proietta verso il suo futuro. La nostra specie ha totalmente perso la bussola e lo ha fatto in un tempo storicamente irrisorio.
Chi ricorda la pubblicità di una nota compagnia telefonica di qualche tempo fa? «Ti diamo le risposte prima ancora che tu ti faccia le domande». Ed è proprio questo il gravissimo stallo della nostra società: ricevere delle risposte prima di farsi le domande.
L’assenza di cultura non è l’assenza di titoli di studio ma l’incapacità di farsi delle domande. La domanda costruisce – e costituisce – l’uomo. Un essere umano senza domande acquisisce la stessa fragilità che hanno gli ungulati quando rimangono separati dal branco: diventano una preda in balia del predatore di turno. Se non sappiamo chi siamo né dove andiamo, presto arriverà qualcuno che ce lo dirà, e noi gli saremo grati perché ci libererà dalla sensazione di insicurezza; saremo pronti ad aderire a qualsiasi fanatismo, a compiere ogni atto che ci verrà richiesto perché, non esistendo più un nord e un sud, un est e un ovest, un bene e un male, l’unica voce che saremo in grado di seguire è quella che ci impone di schierarci dalla sua parte; l’essere umano è per sua natura socievole e gregario, nel momento in cui il livello della coscienza etica si dissolve, viene inesorabilmente attratto dall’oscura forza del branco; la scelta binaria fisiologicamente imposta dai media – dominata dai like e dagli emoticon – spinge irrimediabilmente in questa direzione.
Nel 1962, Romano Guardini, il grande filosofo italo-tedesco, rifletteva con grande lucidità sul «Compito e destino dell’Europa», partendo dagli effetti irrimediabili provocati dalla bomba atomica che aveva dato all’uomo il potere di distruggere sé stesso. «Ma, oltre alla bomba atomica, non vogliamo dimenticare quell’altra possibilità di esercizio di potere, cioè quello di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità. (Le parole “atomo” e “individualità” nel loro senso fondamentale significano lo stesso; cioè quel che non è divisibile). (...) Per questo è stata trovata una parola che sembra innocente: “il lavaggio del cervello”. È possibile cambiare in un uomo, contro la sua volontà, la maniera in cui lui vede sé e il mondo; le misure in cui misura il bene e il male; la condizione che egli, come persona, ha in sé stesso. Questa possibilità è stata attuata e sarà attuata sempre di nuovo – anzi, essa, come sollecitazione e propaganda, gioca già un ruolo nel vivere che si dice del “mondo libero”. (...) Anche questa è una forma del potere umano, più sottile e meno drammatica, ma forse ancor più minacciosa che quella della bomba atomica».
Questa forza, profeticamente intravista sessant’anni fa, alla fine è esplosa e ha distrutto la nostra civiltà, riducendola a un consesso di fanatismi contrapposti, in grado di ridicolizzare la capacità di un qualsiasi pensiero articolato. La persona non esiste più, al suo posto è sorto l’individuo. Tanto la persona era immersa nella complessità, altrettanto l’individuo è come un calesse tirato da cavalli impazziti: va di qua e di là in modo confuso, seguendo le vie che gli vengono insufflate e che scambia per la sua libertà. La persona vive in un universo relazionale di apertura, sa porsi domande sulle realtà più inquietanti ed è impermeabile alle risposte automatiche, sempre consapevole che il segno dell’umano è quello della fragilità e della transitorietà.
Sui sabati al caffè San Marco aleggiavano sempre i witz, i motti di spirito: quegli istanti di leggero incanto che permettevano di staccarsi dalla pesantezza del mondo. Si può dire in qualche modo che la scomparsa dell’ironia abbia sancito il De profundis della cultura; al suo posto è subentrato il sarcasmo, che è una merce davvero di basso livello. II sarcasmo degrada, distrugge, non costruisce nulla; praticarlo fa sentire più intelligenti, ma è un’intelligenza non molto diversa da quella delle iene che si muovono in gruppo alla ricerca di carogne.
Proprio per questo, per chi ha un minimo di consapevolezza, non è il tempo di arrendersi ma quello di combattere. Combattere per fare riemergere la dimensione profonda dell’essere umano – che è quella di saper sviluppare un pensiero autonomo – cominciando da piccoli passi ma fermi, come quello, ad esempio, di eliminare l’utilizzo delle crocette e dei quiz dalla didattica delle scuole primarie privilegiando la riflessione personale. I grandi pensieri incominciano da quelli piccoli, ma bisogna saperli incoraggiare e coltivare fin dalla più tenera età.