la Repubblica, 12 novembre 2023
Gli otto anni che sconvolsero l’arte di Rubens
Peter Paul Rubens, all’interno della Galleria Borghese, è oggi una presenza discreta: appena due opere, del periodo giovanile, arrivate in due momenti diversi nella lunga storia della collezione e del luogo. IlCompianto sul Cristo morto fu acquistato nel primo Ottocento, quando a Rubens si tornava a guardare da tutta Europa come a un modello di naturalismo e a un maestro del colore, in grado di conquistare artisti romantici come Eugène Delacroix. LaSusanna e i vecchioni è invece già attestata nella Villa Pinciana dal 1622: a quasi quindici anni dalla partenza del pittore di Anversa dal-l’Italia, dove aveva soggiornato dal 1600 al 1608. Dopo, Rubens non sarebbe più tornato a Roma, eppure la sua concezione dell’Antico, la sua genialità iconografica, la sua vorticosa rilettura dei capolavori rinascimentali, il suo appassionato studio della natura e la sua celebre “furia del pennello” avrebbero continuato ad agire in sottofondo nutrendo molte delle curiosità artistiche di pittori e scultori attivi nella città pontificia nel corso degli anni venti e trenta del Seicento.
Riportare Rubens alla Galleria Borghese (nella mostra che si apre al pubblico il 14 novembre) significa quindi innanzitutto risarcire una lacuna, mettendo in evidenza i ritmi di un dialogo vivace con Roma che il maestro anversese non interruppe mai: grazie al soggiorno in Italia di suoi allievi come Antoon van Dyck, ai quali aveva probabilmente decantato la ricchezza della collezione del cardinal Scipione; così come grazie ai costanti rapporti epistolari con eruditi in contatto con la città papale e con giovani artisti che da lì e da altre parti d’Italia gli inviavano copie grafiche di opere che non aveva visto di persona. Scegliendo come punto di osservazione privilegiato la scultura, la mostra intende però soffermarsi soprattutto sulla reciprocità di questo dialogo, sulla centralità di Rubens nell’attivare importanti soluzioni formali e iconografiche e sulla pervasività delle sue idee artistiche, in grado di improntare in modo contagioso media diversi. A partire dalla sua rilettura della statuaria e dei rilievi antichi.
Come sottolinea il saggio di Adriano Aymonino in catalogo, con Rubens e con il suo “tocco di Pigmalione” la grafica antiquaria si rivoluziona: cambiano i formati, cambiano i destinatari, cambiano le modalità espressive. Dalla filologia un po’ ingessata del Cinquecento si arriva alle sfolgoranti raccolte dinobilia opera del Seicento, dove l’Antico torna in vita.
Il maestro di Anversa teorizza questo nuovo modo di guardare le sculture in marmo all’interno delDe imitatione statuarum. Si tratta di alcune pagine vibranti, di cui Alessandro Giardini offre in questo volume una nuova traduzione e un’importante introduzione lessicale. Sullo sfondo c’è ancora il paragone tra le arti di cinquecentesca memoria, ma le osservazioni di Rubens, partigiano della pittura, appaiono inedite, perché squisitamente operative: insegna come guardare le statue antiche senza esserne assoggettati, come superare i limiti della materia per focalizzarsi sulla forma.
La statuaria antica può essere la via di un nuovo naturalismo, ma è necessario sapere come selezionarla, come guardarla, come trasformarla in carne, dandole colore, luci e ombre. Forse scritte al termine del suo soggiorno italiano, forse al momento del rientro ad Anversa, queste pagine sono il frutto delle riflessioni di un pittore che ha raggiunto un equilibrio creativo tra lo studio della natura e lo studio della tradizione artistica, antica e moderna.
Come esemplifica David Jaffé nel suo saggio, il rapporto di Rubens con la natura non è mai ingenuo e conosce tutte le modalità di appropriazione: dall’osservazione dal vero all’assimilazione di soluzioni formali trasmesse a stampa, dal disegno di statue antiche (e bronzetti moderni) allo studio di iconografie elaborate da altri pittori. L’artista, fin da giovane, si abitua a scegliere i suoi modelli e a rielaborarli, confrontandosi senza tregua con i maestri del Cinquecento e con i suoi contemporanei. Il percorso della mostra permette di evocare l’attenzione di Rubens nei confronti di Caravaggio e la costante ammirazione (anche dei suoi allievi) per Tiziano. Nel catalogo un importante contributo di Carmen C. Bambach è dedicato invece a Leonardo: pur con le luci e le ombre della sua fama, di certo un modello costante per Rubens, che dai suoi disegni avrebbe imparato a dare alle proprie creazioni moto, forza ed espressione, insegnandoli quindi agli artisti della generazione successiva, in primis Bernini.
Nel 1622, quando laSusanna di Rubens sembra già nella collezione del cardinal Scipione, il giovane scultore sta completando ilRatto di Proserpina, per il quale la critica ha più volte invocato una prossimità alle opere del maestro anversese e un debito nei confronti del suo naturalismo. I gruppi borghesiani di Bernini, realizzati negli anni venti, rileggono celebri statue antiche per donare loro movimento, traducendo “in carne” il marmo. Nei primissimi anni trenta sono i ritratti dello scultore ad acquisire vita, quasi stessero per rivolgere la parola ai loro spettatori: hanno le pupille incise e lo sguardo direzionato, come i busti antichi raffigurati nelle stampe che circolano per Roma secondo la lezione rubensiana. Più tardi, la sfida nello scolpire un cavallo in levade, affrontata da Bernini, suggerisce un confronto con Leonardo, forse impensabile senza la mediazione del fiammingo, senza il suo tocco di Pigmalione.
Per i viaggatori nordeuropei che alla fine del Settecento arrivavano in Italia le affinità formali tra il pittore di Anversa e lo scultore napoletano erano innegabili e significavano qualcosa di più di un semplice rispecchiamento stilistico. Erano la prova di una modalità espressiva condivisa, transnazionale e transmediale, che aveva segnato l’inizio di una stagione artistica durata due secoli, per la quale ancora si faticava a trovare un nome.