Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  novembre 12 Domenica calendario

La storia segreta dell’Oxford Dictionary

Una vecchia battuta afferma che inglesi e americani sono due popoli separati dalla stessa lingua: in teoria la medesima, in pratica con notevoli differenze. Per dirne una, la parola “colore” si scrive in modo diverso, colour (in Inghilterra) e color (negli Stati Uniti). E a complicare le cose c’è l’accento, grazie al quale si capisce subito se chi parla viene da Londra o da New York. Ma una recente rilettura dell’Oxford English Dictionary, testo di riferimento dell’idioma di Shakespeare, porta alla luce una storica iniziativa che unisce linguisticamente inglesi e americani, anziché dividerli. Rivelando in che modo un dizionario ha aiutato l’impero più vasto e popoloso della storia a diffondere l’inglese in tutti i continenti, facendone la lingua globale del pianeta.
Un giorno di alcuni anni fa, aggirandosi per i corridoi dell’Oxford University Press, la professoressa Sarah Ogilvie, linguista di fama, ha notato una cassa polverosa. Dentro c’erano sei quaderni: gli indirizzari di tutti coloro che avevano contribuito alla stesura del dizionario, meticolosamente compilati un secolo e mezzo prima da James Murray, primo direttore della prestigiosa casa editrice. La ricercatrice ha capito così che l’Oxford English Dictionary è nato come una sorta di Wikipedia del diciannovesimo secolo: chiunque parlasse inglese, in ogni parte del mondo, era stato invitato a mandare parole da includere in quest’opera monumentale.
Fino alla scoperta della professoressa Ogilvie, non si sapeva quante persone avessero inviato contributi. Grazie agli indirizzari, la studiosa li ha contati: furono più di tremila. E su di loro ha poi scritto a sua volta un libro, The Dictionary People, appena pubblicato negli Usa. Per la maggior parte non si tratta di illustri accademici. I quattro maggiori contributori, uno dei quali inviò a Oxford 165 mila parole, vivevano in manicomi psichiatrici. Tre erano assassini in prigione. Uno era il maggiore collezionista mondiale di pornografia. E parecchi erano americani. In ogni pagina degli indirizzari, almeno un nome è sottolineato in rosso: sono gli autori statunitensi del dizionario. Politici, bibliotecari, librai, avvocati, luminari come Noah Thomas Porter, curatore del Webster Dictionary, primo dizionario americano, e presidente della Yale University. Ma anche la 21enne Carille Atwood, che abitava in una casa di piacere di San Francisco.
Fra i termini americani proposti e inseriti nel dizionario di Oxford figurarono praire (prateria) e skunk (puzzola), coyote (lupo della prateria) e chipmunk (scoiattolo), casket (bara) e baggage (bagaglio, che gli inglesi chiamano luggage), cookie (biscotto, gli inglesi preferiscono dire biscuit) e faucet (rubinetto, chiamato tap in Inghilterra). Un’avvocata dei diritti umani, Anna Thorpe Wetherill, contribuì con due parole associate alla lotta allo schiavismo: abhorrent (ripugnante) e abolition (abolizione). Francis Atkins, medico di una base militare, difensore ante-litteram dei nativi americani, inviò parole legate alla loro cultura, come squash (un tipo di zucca) e bison (bisonte).
È anche grazie a questa inclusività linguistica che inglesi e americani hanno imparato a conoscersi meglio e a diventare oggi i più stretti alleati, fautori della cosiddetta special relationship, la relazione speciale nata in due guerre mondiali e sviluppata fino ai nostri giorni, nonostante la rivoluzione americana contro la corona britannica che portò nel 1776 alla fondazione degli Stati Uniti. A dispetto dell’Oxford Dictionary, tuttavia, non sempre i due popoli “separati dalla stessa lingua” si comprendono immediatamente. Come sottolinea la storiella dei due esploratori bianchi dispersi da settimane nel fitto della giungla africana, ciascuno per conto proprio: all’improvviso nel folto della foresta si apre una radura e i due si incontrano. In preda alla gioia di non essere più soli, si abbracciano commossi. Il primo comincia a parlare trafelato raccontando l’avventura che ha vissuto, ma il secondo non capisce una parola, scuote la testa e prova a sillabare lentamente: «Io americano… Di New York…Tu di dove?». Leggermente sorpreso, l’altro risponde: «Liverpool».