la Repubblica, 12 novembre 2023
Einaudi novant’anni di bianco
Nelle sue molte case, Giulio Einaudi voleva quasi sempre pareti bianche. Gli oggetti, pochi e di gusto, dovevano spiccare come frasi esatte, parole ben concepite anche a livello formale. Del resto, in tipografia la grafica è sostanza. Bianche erano, e sono, le proverbiali copertine dei Supercoralli, una cornice che si riconosce al primo sguardo. E c’è qualcosa di bianco, scherzi della toponomastica, anche nello storico indirizzo torinese della casa editrice, via Biancamano. Pare quasi di vederla, e toccarla, la bianchezza di quella mano che sfoglia pagine.
I novant’anni dell’Einaudi, fondata come “ditta individuale” il 13 novembre 1933 da un gruppo di amici che studiavano al liceo D’Azeglio (come quelli che a fine Ottocento avevano inventato la Juventus), raccontano cos’è stata la cultura italiana del Novecento. Sono una storia nazionale cominciata qui, nella Torino che fa cose. E gli einaudiani, da subito, questo sono stati: gente che ha lavorato tanto, persone serie nella serissima città che li esprimeva. Magari un po’ snob, liberali eppure aristocratici come l’Editore, sovrano assoluto che per farsi comprendere dai sudditi non aveva bisogno di troppe parole. Ernesto Ferrero, recentemente scomparso, ha spiegato che a Giulio Einaudi erano sufficienti qualche gesto, uno sguardo, il trafficare con la pipa. Per segnare in modo indelebile quel bianco e quelle pagine, Einaudi a un certo punto decise che sarebbe stato necessario un carattere tipografico pensato e disegnato apposta. Erano gli anni Cinquanta, quelli delle magnifiche copertine di Max Huber e Bruno Munari. Così l’Editore si rivolse al tipografo bolognese Francesco Simoncini, che impiegò ben due anni per creare il leggendario “Garamond Simoncini” che distingue i testi dell’Einaudi, come ben sa qualunque autore che abbia provato l’emozione di aprire la prima “copia staffetta” di un proprio libro per riconoscere, nelle forme di quelle lettere così speciali, una specie di affiliazione.
Giulio Einaudi era il più giovane del gruppo, appena ventunenne, quel 13 novembre 1933. Era nato infatti nel 1912, figlio di Luigi Einaudi che sarebbe diventato presidente della Repubblica. Tre anni più di lui aveva Leone Ginzburg, primo direttore editoriale, che i fascisti tortureranno e uccideranno nel 1944. Norberto Bobbio era del 1909, Massimo Mila del 1910. Cesare Pavese, che di lì a poco sarebbe diventato uno dei motori principali della casa editrice insieme a Elio Vittorini, era del 1908: sarà lui a portare all’Einaudi l’antropologia, la psicoanalisi, la letteratura americana, i grandi classici.
Invece il famoso struzzo («…che non ha mai messo la testa sotto la sabbia», come diceva Bobbio) venne ereditato dalla rivista La Cultura di cui Giulio Einaudi fu l’ultimo editore prima che il regime la sopprimesse nel 1935, anno in cui egli stesso venne arrestato e mandato al confino. Era, quello struzzo scovato a suo tempo da Franco Antonicelli, un’immagine cinquecentesca (1575, per l’esattezza) che già nel motto latino spiega bene una delle caratteristiche dell’Einaudi: «Spiritus durissima coquit». La capacità di digerire anche le cose più dure si rivelerà preziosa negli anni delle molte tempeste, politiche e finanziarie, senza però che l’albero maestro della bianca nave venga divelto. Quello struzzo ha avuto, com’è logico, qualche importante evoluzione nel secolo breve e densissimo che l’ha visto protagonista. Una versione più moderna venne donata nel 1951 da Picasso a Giulio Einaudi, che l’aveva raggiunto nella casa di Antibes: il cameo andrà a marchiare i tascabili. E nel 2000 l’animale totemico è stato rivisitato da Giulio Paolini.
Le stagioni dell’Einaudi sono storia e società, raccontano il nostro paese e la forma che è andato assumendo neltempo, grazie a cattedrali di carta che erano e sono pensiero, visioni del mondo, identità e dibattito. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, l’Einaudi ha iniziato a essere davvero quello che sarebbe stata, con i Gettoni di Vittorini e la grande saggistica, passando a setacciare il meglio della narrativa italiana di quel tempo e poi degli anni Sessanta: la Ortese, Calvino, Lalla Romano (che Giulio Einaudi chiamava “la cattiva”), Primo Levi, Fenoglio, Sciascia, Lucentini, Rigoni Stern. Il suicidio di Cesare Pavese nell’agosto del 1950 sembrò un colpo irreparabile. Giulio Einaudi non amerà mai parlarne, lui lo definiva «uomo di dubbi», invece Pavese lo chiamava «il padrone». Ma anche quell’enorme dolore venne elaborato e superato.
Da Italo Calvino, redattore instancabile e collegamento tenace con gli scrittori della casa, oltre che autore di indiscusso prestigio, e da Vittorini fino a Giulio Bollati è stata una continua rilettura della modernità, con il travolgente successo di Elsa Morante negli anni Settanta, quando La storia vendette oltre un milione di copie. Ampliarsi e rivolgersi al grande pubblico non era più un peccato mortale, e anzi garantiva all’azienda quell’ossigeno finanziario indispensabile fino alla crisi degli anni Ottanta, quando la sopravvivenza dell’Einaudi venne messa in forte dubbio. Due furono, a quel punto, le mosse decisive. La prima, nel 1994: la vendita dell’Einaudi alla Mondadori, che pure non ne ha invaso i confini. La seconda, la creazione nel 1996 di Einaudi Stile Libero, la costola “pop” con centro di gravità romano che ha allargato ulteriormente il pubblico dei lettori, aprendosi anche al noir. Gli anni Novanta sono stati quelli della grande letteratura straniera, con l’ingresso in catalogo di giganti come Philip Roth, Saramago, DeLillo, Grass, Auster, McEwan, Coetzee, Yehoshua, Franzen. Prima di morire nel 1999, Giulio Einaudi ha avuto modo di vedere la sua creatura mutare così, senza però cambiare nel profondo, continuando a inseguire quella “religione della libertà” e quell’“avventura di felicità” (la definizione è di Ernesto Ferrero) che rimangono nitide e presenti ancora oggi, a loro modo dei classici.
Impossibile racchiudere i novant’anni dell’Einaudi in poche immagini o frasi, né ridursi al gruppo di fuoriclasse della penna, della redazione, della grafica, della traduzione e dell’organizzazione aziendale che hanno condotto la nave attraverso mille mari anche in tempesta, da Roberto Cerati a Giulio Bollati, da Daniele Ponchiroli a Ernesto Ferrero, da Ernesto Franco a Walter Barberis. Forse bisogna accontentarsi di qualche istantanea che dura nel tempo. Le riunioni del mercoledì attorno al tavolo ovale (è ancora lì). Il cappotto nero di Sciascia, quando una volta all’anno arrivava dalla Sicilia. I pullover di Calvino. Le gonne di Elsa Morante «che vestiva come una zingara». Le timidezze di Primo Levi.
Forse, vale ancora la pena immaginarli tutti o quasi, gli einaudiani, quando Giulio li portava in ritiro estivo in Val di Rhêmes come una squadra di calcio prima delle fatiche del campionato. Eccoli riuniti nell’albergo Granta Parey, eccoli in gita verso il Rifugio Benevolo, in testa alla comitiva si è già involato Calvino che marcia, manco a dirlo, in silenzio. Seguono, il passo militare di Massimo Mila, Bobbio che si attarda perché le gambe gli consigliano di non forzare, invece Vittorini non si è mosso e li aspetterà al ritorno, in terrazza. Sembrano felici, stanno immaginando e già scrivendo cose che nutriranno generazioni, perché anche i lettori possono essere “einaudiani”. Sullo sfondo, montagne bianche come copertine.