La Stampa, 12 novembre 2023
Intervista a Francesco Guccini
«Le osterie vere erano posti tristissimi popolati di anziani signori come ora sono io, semialcolizzati, davanti a due tipi di vino: bianco e rosso. Un bicchiere 25 lire, 25 lire un uovo. Quando noi arrivavamo con la chitarra, i vecchietti si ringalluzzivano». Ricordi di gioventù, dal palco dell’Aula Magna della Statale dove Francesco Guccini racconta agli studenti ampi squarci della storia minima che ha accompagnato la sua lunga vita di bardo gioviale e generoso sulle tavole dei Palasport e dei teatri d’Italia. Tutto nasce dall’album che in solo formato fisico è uscito ieri, intitolato appunto Canzoni da osteria dai luoghi frequentati in giovinezza da Guccini, anche se poi le canzoni sono pezzi di storia sofisticata come La tieta di Serrat (rivoltata poi in italiano da Mina come Bugiardo e incosciente), o Hava Nagila, celebre canzone ebraica scritta nel 1918 quando gli inglesi vinsero in Palestina, o ancora El caballo negro del genio argentino Atahualpa Yupanqui. Ispanico, inglese, bolognese, greco misto all’italiano si inseguono senza un ordine preciso: “mi son girate nella testa per anni”, scrive Francesco nel succoso preambolo che racconta quest’album aperto non a caso da Bella Ciao che ieri un coro di alpini ha regalato in apertura alla platea.Caro Guccini, 10 anni di iato poi due dischi in due anni, di materiale non suo. Nel 2022, Canzoni da intorto è stato il vinile più venduto. Dobbiamo aspettarci un terzo episodio?«Non credo, anche perché la giornata di oggi mi spinge a non fare più nulla di questi lavori». (bombardato di domande, ha resistito un’ora)Come ha imparato queste canzoni?«Passo per un grande esperto di osterie ma è una favola. L’osteria dei Poeti era aperta dalle 18 alle 20 ma il nome che faceva illudere molti di noi era una dedica alla famiglia Poeti. Sulla fine dei ’60, Bologna era piena di studenti stranieri, e le nostre serate con la chitarra, come quelle da Gandolfi, avevano spazio fisico e si spendeva poco per cena. Venivano ad ascoltarci: una sera si presentò Deborah Kooperman, che rimase poi in Italia e avrebbe suonato con me. Faceva chitarra con il “picking” e cantava così bene. Le insegnai canzoni italiane e lei mi fece imparare tra l’altro Cotton Fields che è finita qui sopra. C’era anche Alex, greco e studente d’ingegneria e aveva scritto una bellissima canzone sul golpe dei colonnelli, la cantava in greco e italiano, con il titolo 21 aprile. Ma le più criticate saranno le canzoni in bolognese perché io sono modenese e i bolognesi ci guardano con severità».Perché ha aperto con Bella ciao?«È diventata una canzone internazionale, simbolo della protesta contro la teocrazia iraniana, cantata dalle donne iraniane; Narges Mohammadi è ancora in galera, ha avuto il Nobel per la pace. Tosca l’ha cantata tutta in parsi. Ho cambiato due cose nel testo: ho messo “gridi” e non “grida”, e “l’oppressor” invece “dell’invasor"».Cosa significava l’osteria, nelle vostre vite del tempo?«Convivialità ma anche impegno. Di destra non ce n’erano tanti, non si parlava di politica ma del Vietnam; nei primi ’70 ci fu la lotta per i diritti civili, il divorzio e l’aborto, e mi impegnai con qualche concerto. Non partecipavamo alle lotte in fabbrica. Portavo gli studenti alla festa dell’Unità ed erano sbalorditi: ogni tanto mangiavamo un bambino ma poi tornavamo alla musica. Chiamavano i bolognesi “biasanott”, masticanotte, ma adesso è tutto chiuso».La “canzone d’autore” le pare un termine abusato? Come la vede con gli occhi di oggi?«Comincia a circolare con Radici, ma io di oggi non so niente. Però penso alle canzoni italiane del Dopoguerra, erano ignobili: la postina della Val Gardena che bacia solo con la luna piena, il buon Papà Pacifico che possiede un flauto magico, la casetta in Canadà con i fiori di lillà. Ma che roba era? Quello era Sanremo, e per fortuna arrivarono i Cantacronache con quel genio di Amodei e Calvino e Michele Straniero. I cantautori hanno cambiato la canzone italiana, quella spagnola e anche quella inglese».Che cosa l’ha spinta a scrivere libri?«Leggevo tanto, in casa dei nonni a Pavana trovavo anche i gialli. Mangiavo mele e leggevo. Purtroppo con questa malattia non riesco più ed è un grande peso. Penso a Borges, che da cieco diventò direttore della Biblioteca Nacional e parlò della maestria di Dio: “Che con magnifica ironia/mi diede insieme i volumi e la notte”.Quando ha scelto Hava Nagila non c’era ancora il conflitto.«Non avevo mai approfondito la questione del Medio Oriente, ma amici di Medici senza Frontiere mi parlavano dell’occupazione della Palestina. Come nei talk show ci sono due fazioni opposte: tifoserie che si urlano contro, dimenticando che in mezzo ci sono le vittime. Sergio Staino, scomparso un mese fa, aveva fatto un disegno meraviglioso sulla mia canzone Il vecchio e il bambino: i due andavano di spalle verso un mondo migliore, il vecchio aveva sulla schiena la bandiera israeliana e il bambino quella palestinese. Questa speranza si può conservare, e d’altronde nella mia Auschwitz finisco chiedendo quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare. Può sembrare retorica, ma io la penso così».E lo stato dell’arte della nostra Repubblica, come lo vede?«Sono soddisfatto. C’è una Signora che dice che è soddisfatta. Io ho 83 anni e in galera non mi mettono più. Non siamo ancora in una teocrazia e questa è una soddisfazione; per ora mi onora della sua amicizia il Cardinale Zuppi. Si spera sempre che succeda qualcosa». —