La Stampa, 12 novembre 2023
Intervista a Gigliola Cinquetti
Quello che più conta, per Gigliola Cinquetti, è: la sua famiglia, il divertimento, la libertà, la pasta. Sono le cose di cui parla di più in A volte si sogna, la sua biografia romanzata, dove niente è inventato: qualcosa è omesso, qualcos’altro è dimenticato – «dimenticare era stata la sua specialità per tornare in fretta alla sua vita vera», scrive.
Il resto, quello per cui la conosciamo tutti, viene dopo: è un ruolo, qualcosa che ha accettato con fatica e da cui ha pensato più di una volta di scappare. «Nel 1976 feci un concerto a Rio de Janeiro per le persone che abitavano nelle favelas, vennero in tantissimi e, alla fine, vollero abbracciarmi: in quel momento capii chi ero, e quanto era bello ciò che potevo fare. Il regalo che quella gente mi fece fu convincermi che avevo il talento giusto per comunicare con loro», dice a La Stampa.
Nel 1976 era adulta. A cantare aveva cominciato a 16 anni, il primo a spingerla era stato suo padre, che però «Si aspettava da me che io diventassi famosissima e che, dopo, appena svanito il successo, mi sposassi e diventassi una donna di casa. Voleva due cose inconciliabili». Tutti credevano che la sua notorietà sarebbe stata intensa ma effimera. Tuttavia, se a 16 anni vinci Sanremo e a 18 lo vinci ancora con una canzone che Domenico Modugno ha scritto per te, Dio come ti amo, sei destinata a fare la storia e a restarci dentro a lungo. Nel 1974, quando Cinquetti vinse l’Eurovision con un pezzo che si chiamava Sì, la Rai posticipò la messa in onda per non influenzare il voto al referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, temendo che gli italiani non ascoltassero che lei. Una volta, a Milano, ci fu un maxitamponamento perché lei aveva attraversato la strada e tutti si erano fermati per guardarla. Ma neanche questo, e l’ammirazione di Aznavour e i giapponesi in fila per lei a Tokyo, e gli ultimi concerti, qualche anno fa, ancora in giro per il mondo, fino alle Cascate del Niagara, hanno avuto un’importanza maggiore di sua madre, suo padre, suo marito, i suoi figli, la campagna. La biografia di Cinquetti è la storia di una donna che ha rinunciato alla libertà e alla spensieratezza perché il suo talento rendeva felici gli altri.
Però quanto si è divertita, Cinquetti.
«Divertirsi è fondamentale. Mi ci sono impegnata. Non sono un’allegrona e nemmeno una simpaticona, anzi: mi hanno sempre detto che ero antipatica. La maggior parte delle volte che incontravo qualcuno per la prima volta, mi sentivo dire: “Però non sei così antipatica!”. De Gregori, gli amici di mio marito e gli amici degli amici di mio marito, che lui ogni tanto chiamava i lottacontinuotti. Tutti».
E Luigi Tenco. Il suo libro comincia dal momento in cui lui entrò nel suo camerino, si presentò e le disse: «Io la odio. Ci tengo a dirglielo. Lei rappresenta tutto quello che io detesto: è falsa, ipocrita, perbenista».
«Si presentò come Luigi, senza cognome. Ricostruii dopo che era lui: conoscevo la sua voce, ma non il suo viso».
La ferì?
«Mi stupì. Avevo vinto da poco Sanremo ed ero abituata a essere molto lodata. Quella fu la prima di una serie di lezioni, più o meno dure, che mi servirono a costruire la mia identità».
Perché ce l’aveva tanto con lei?
«Forse perché in quegli anni il successo commerciale era malvisto. Le case discografiche erano demonizzate, incolpate di svilire l’arte in commercio, era un pregiudizio concimato da un’idea intransigente e anche piuttosto assurda di purezza, in nome della quale tutti si sentivano in dovere di dirti cosa pensavano, senza filtri, in faccia, anche brutalmente. Tenco aveva, forse, questa specie di pratica da sbrigare con me: darmi dell’ipocrita, per lui, significava ribadire la sua distanza dal mondo del quale mi riteneva vittima e fautrice. Un mondo che disprezzava e si sentiva chiamato a combattere».
La discografia era davvero demoniaca?
«Al contrario. Io mi sono sentita protetta: il rispetto della mia giovinezza è sempre stato totale. Quando la Warner mi propose di andare a lavorare negli Stati Uniti, il mio produttore Sugar mi raccontò con grande onestà il bene e il male che ne avrei ricevuto: mi diede tutti gli elementi per poter scegliere. E io, che all’inizio ero stata molto allettata, decisi di restare in Italia».
Perché?
«Perché la Warner aveva un progetto preciso e stringente: fare di me la ragazza della porta accanto. Io però volevo essere unica, ammiravo Ingrid Bergman, volevo assomigliare a Françoise Hardy: una ragazzache rivendicava il suo essere libera e mai a disposizione del maschio. Il mondo andava da un’altra parte e le donne, io inclusa, si mettevano la minigonna, che significava: la cosa più importante che ho, sono le mie gambe, perché mi portano dove mi pare. E quelli là volevano fare di me la bimbetta rassicurante che piaceva ai vecchi americani? Quei testoni puritani? Per carità. Antipatica sì, ragazza della porta accanto no, mai, neanche morta».
Quindi è vero che è antipatica?
«Non voglio diventare simpatica facilmente perché se sei spiritosa, allegra e divertente, tutti pretendono che tu lo sia sempre, che è una cosa terrificante e io ho paura di creare questa aspettativa».
Si offende se le dico che è un po’ snob?
«No. Però non lo sono».
Privilegiata?
«Ho avuto un successo sovradimensionato, questo è certo. Ma il successo è costitutivamente spropositato e sproporzionato rispetto a quello che uno ha fatto, altrimenti sarebbe la giusta ricompensa per un lavoro ben fatto. Nessuno merita il successo: è una cosa che succede, per mille variabili diverse, la più piccola delle quali è il valore personale. Però, così come nessuno merita la venerazione incontrollata, nessuno merita di venire aggredito. Pasolini diceva che il successo è un’aggressione e aveva ragione».
Esempi?
«La perdita di privacy, il venire strattonati dalla folla, il dover badare a qualsiasi frase, posizione, scelta, e pagarle, persino. E poi la vita sempre anormale, che investe anche le persone intorno: i miei figli, come tutti i figli delle persone famose, sanno benissimo che nessuno li aiuta, quando hanno bisogno, perché vengono considerati dei privilegiati che hanno avuto tutto anzi persino troppo, e allora è giusto che se la cavino da soli».
Si è mai sentita spolpata?
«Continuamente. Sin dal primo momento, quando mi chiesero se volessi fare la cantante e io dissi di sì, senza pensarlo: avevo 15 anni, cosa ne potevo sapere? L’angoscia della mia giovinezza è derivata dall’obbligo di scegliere tra molte opzioni possibili. Ora sono magnificamente in pace: les jeux sont faits».
Quali erano le altre opzioni possibili?
«Fare la camminatrice, come l’amico di mio padre che veniva a trovarci a piedi da Parigi. Oppure la locandiera».
La locandiera?
«Per me il cibo è importantissimo. Preparare da mangiare per me e per gli altri è il centro della mia giornata, quando sono a casa. Ho preparato gli omogeneizzati in casa per i miei figli. Ho sempre avuto molti amici a cena. Amo cucinare per mio marito».
Sente di aver perso qualcosa?
«Al contrario. Mi sento profondamente grata. La gratitudine non è un sentimento facile o istintivo: è una conquista, forse la più importante».
Scrive: “Volevo ubbidire liberamente”.
«L’obbedienza può essere nobile se è una scelta ed è fatta con spirito di lealtà e servizio. Io questo credo di aver fatto per tutta la vita».
Chi sono le sue amiche?
«Non ne parlo pubblicamente. Nel libro ho scritto di Loredana Bertè e Caterina Caselli perché c’erano in un momento importante della mia vita, la morte di mio padre».
E Mina?
«Una collega».
Rivale?
Nel suo libro parla moltissimo di pasta.
«Io se non mangio almeno un piatto di pasta al giorno, non sto in piedi. E poi nel libro ne ho parlato perchè nei libri il cibo dà ristoro ai lettori. Quando ho letto la trilogia di Stieg Larsson, che ho molto amato ma che ricordo con terrore, le parti che mi sollevavano erano quelle in cui i protagonisti mangiavano».
La gente le ha mai fatto paura?
«Ma si figuri. A me la folla piace. Mi piace farne parte, confondermici».
Quando salì sul palco in Cile, chiamata dalle associazioni che lavoravano per ottenere un referendum che ripristinasse il diritto di voto dopo Pinochet, venne contestata molto violentemente perché indossava una pelliccia. Non si spaventò neanche allora?
«No. Pensai che avrei dovuto toglierla prima, ma non l’avevo fatto e quindi me la tenni. Gli artisti di oggi non so se abbiano questo tipo di esperienza ma io sono cresciuta in un tempo in cui si entrava e usciva al cinema quando e quanto si voleva, si fischiavano gli artisti durante i concerti, persino durante le opere liriche: con il pubblico c’era un rapporto dialettico molto intenso. Quando ho cominciato a salire sul palco ero ben consapevole di dover andare alla battaglia, di dover conquistare il consenso e mettevo in conto che poteva andar male».
Lei è di destra o di sinistra?
«Prima di tutto, accanitamente antidemocristiana, come mio padre. Sono sempre stata di sinistra. Moderata. Prodiana e ulivista».
Militante?
«Neanche per sogno. Mi hanno proposto spesso di fare il sindaco. Una volta, il Pds voleva candidarmi alle europee. Ho sempre rifiutato. Non ho le competenze. E se la politica si riduce a comunicazione, usando personaggi celebri, finisce male. E infatti siamo finiti male. E ora aspettiamo che passi la nottata».
Odiava che le domandassero di essere autentica.
«Non ho mai capito cosa significhi essere se stessi. E non credo, poi, che sia una scoperta così interessante».
Perché ha scritto la sua storia in un libro?
«Perché ho capito chi sono, forse».
Chi?
«Una che, quando stava morendo in un incidente stradale, s’è detta: ti restano quattro secondi di vita, fammi vedere chi sei e goditeli. E così ho trovato la lucidità per fare la manovra che ha distrutto la mia macchina e salvato la mia vita».
Lei è una persona normale?
«Non esageriamo». —