La Stampa, 12 novembre 2023
Ontervista al Piotta
«La creatività oggi va cercata nella letteratura, lasciata libera dal pressing del digitale e dello streaming. Forse un po’ meno nella musica, che in questo momento paga troppo lo scotto delle regole kafkiane dei nuovi mezzi di diffusione». Nel 1999 Tommaso Zanello in arte “Piotta” pubblicava un inno all’arci-italiano che ne scolpiva tratti e movenze attingendo a piene mani all’immaginario Serie B Anni 70: “Chi in pista veste come Manero Tony/ Mangianastri a palla negli Alfettoni/ Pantaloni a zampa, la giacca della Standa”. Il Supercafone di “er Piotta”, coi suoi occhialini tondi da cui soprannome e nome d’arte (a Roma una piotta è una moneta, stessa forma delle lenti), passò come un turbine sulla musica italiana: era il 1999 quando uscì, gli anni d’oro del rap di casa nostra, ma il musicista inseguiva personaggi come Mario Brega o Franco Califano sull’onda della riscoperta del cinema di serie B, di cui era ed è appassionatissimo. Adesso è appena tornato sulle scene con un pezzo nuovo, Bau Bau, un duetto col suo corrispettivo virtuale realizzato grazie a un software di Intelligenza Artificiale che ne sperimenta gli algoritmi.
Sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale in musica, così come in altre attività, si dibatte moltissimo. C’è da averne paura?
«Il mondo contemporaneo risulta di sempre più difficile comprensione, e il domani con più incognite che certezze. Forse le due cose, intendo il presente e quel “futuro che non è più quello di una volta”, come dico nel brano Bau Bau, avvengono nello stesso momento, amplificando direzioni verso le quali stiamo già andando. Da secoli le distopie sono al centro del racconto degli scrittori, ora anche del cinema e della musica. È più che comprensibile che ci siano timori, dato che l’IA è uno strumento dal potenziale enorme, e come per l’energia atomica il suo utilizzo porta a grandi rischi, soprattutto in merito a chi potrebbe usarla per fini personali o maligni, come già sottolineato dal premio Nobel Parisi o da Elon Musk».
Dei generi musicali in circolazione quali non sopporta?
«Amo talmente la musica che non trovo un genere che io possa detestare. Ognuno ha qualcosa di bello, originale, innovativo, chi più e chi meno in base al momento e all’età in cui lo si scopre ed ascolta. Ho amato la musica house, l’elettronica Anni 90 che ascoltavamo ai rave, amo da sempre l’hip hop e la musica reggae, il latin-funk, il jazz, fino a quei cantautori con cui mi sono formato».
Cosa pensa della trap?
«Ha apportato nella scena urban degli elementi musicali interessanti. Malinconici, a tratti nichilisti, molto melodici, facilmente riproducibili e in quanto tali dal potenziale commerciale enorme, come di fatto è stato. Sul lungo periodo appare a mio gusto un po’ ripetitiva, sia nella veste musicale che in quella testuale, con il trittico sesso, droga e violenza sempre più esasperato, ed emblematici in tal senso sono gli ultimi casi di faide rap anche in Italia».
Lei ha fatto politica in gioventù, questa sinistra chi rappresenta? Le sembra adeguata?
«In realtà mio fratello più grande fece così tanta politica, in anni così drammatici come furono gli anni di piombo, che io più piccolo di dieci anni rifiutai – come tanti miei coetanei – questa estremizzazione, motivo per cui mi tenni assai più distante dalla politica studentesca attiva. Pur frequentando quei mitici centri sociali cominciai a fare rap, partecipando a molte manifestazioni di allora, e mi riferisco a quelle in occasione della guerra in Iraq, nei Balcani, del governo Berlusconi».
Da appassionato di oggetti vintage so che va per mercatini, che cosa cerca?
«Per anni ho cercato dischi, sia in Italia che all’estero, ma avendone oramai a migliaia cerco anche libri, quadri ed oggetti che mi rimandano al recente passato, diciamo dagli anni Sessanta in poi. Amo circondarmi di questi ricordi emotivi, che aprono squarci sulla mia e sulle nostre famiglie. La pittura l’ho mutuata da mio zio pittore, Carlo Roselli, e la passione per la letteratura da mio fratello Fabio, scrittore. Mio padre mi ha passato l’amore per la fotografia, anche se lo faceva solo per hobby, e quello per i cantautori italiani con cui ci ha musicalmente cibato, da Francesco De Gregori a Lucio Dalla, da Pino Daniele a Ivano Fossati».
Le piace il cinema italiano?
«Ho sempre amato la versatilità e la genialità del nostro cinema, dai film che ne hanno decretato il successo mondiale, fino ai così detti b-movies. Dai film con budget importanti a quelli autoprodotti e realizzati con pochissimi mezzi. Adoro il neorealismo, Pasolini, Matteo Garrone, il cinema di confine e pellicole cult come L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria o Amore tossico di Caligari, ma poi anche i poliziotteschi di Lenzi, l’horror geniale di Fulci e tanto altro».
La creatività oggi sembra merce rara, dove va cercata? In musica, cinema, letteratura. Dove si trova?
«Credo soprattutto nella letteratura, forse un po’ meno nella musica. Il cinema invece, nella sua magia totalizzante che racchiude tutto, è da sempre variegato, dal film più libero e d’autore al film più becero e schiavo del fare cassetta, come si usava dire tanto tempo fa. Oggi diremmo schiavo della serialità, a volte così ripetitiva da non aggiungere nulla a quanto già detto in una prima stagione». —