La Stampa, 12 novembre 2023
Intervista a Giorgio Parisi
Via Panisperna significa letteralmente pane e prosciutto. Si dice che in quella via dell’antica Roma i sacerdoti del Tempio di Giove distribuissero periodicamente pane e prosciutto e che lo stesso venisse fatto, molto tempo dopo, per la festa di San Lorenzo. E, negli Anni Trenta del Novecento, sempre in quella via, il Gruppo di Enrico Fermi regalò alla fisica qualcosa che era buono come il pane».
Giorgio Parisi, Nobel della Fisica 2021, è un maestro che riflette sui maestri del Ventesimo secolo. Geniali e poi celebri, i ragazzi di via Panisperna presero, troppo presto, vie diverse e anche enigmatiche, come Ettore Majorana, eppure ne bastò uno, il “sopravvissuto”, a rifondare la fisica italiana del dopoguerra. «Era Edoardo Amaldi – dice Parisi a La Stampa -. Ricevette offerte dagli Stati Uniti, ma disse che sentiva fosse suo dovere restare in Italia». E la scelta lo trasformò rapidamente in maestro. «Negli Anni Sessanta, l’avevano soprannominato Il Babbo, per quello che stava facendo, come coordinatore, nei dipartimenti di fisica delle università, per il ruolo di fondatore dell’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, per il contributo alla creazione del Cern a Ginevra. In più teneva i contatti con i governi e otteneva i finanziamenti. Era uno sperimentale che ha costruito l’ambiente ideale per la fisica, anche per quella teorica».
Professore, quanto si sente legato a quella eredità umana e scientifica?
«Amaldi ebbe un grande ruolo, organizzando la ricerca, ottenendo i fondi per attività che andavano dalle borse di studio alla costruzione di acceleratori di particelle. È suo il merito se sono venuti in Italia personaggi fondamentali per la ricostruzione della fisica italiana, tra cui Gleb Wataghin a Torino e soprattutto Bruno Touschek a Roma. Touschek, ebreo austriaco, sopravvissuto all’Olocausto, grandissimo fisico a cui la guerra impedì di laurearsi, fu un geniale autodidatta e fu il professore di Francesco Calogero e di Nicola Cabibbo, il mio maestro. Credo che, se non fosse scomparso nel 1977, Cabibbo avrebbe vinto il Nobel con Carlo Rubbia».
Come vi conosceste?
«Alla Sapienza, dove ho studiato tra il 1966 e il 1970. A quell’epoca Roma ospitava un ambiente internazionale, influenzato da cosa veniva sperimentato al Cern. Cabibbo aveva 34 anni ed era già una celebrità mondiale:ventottenne, aveva scoperto quello che tutti chiamarono l’Angolo di Cabibbo. Con lui scrissi la mia tesi».
Come lo descriverebbe?
«Come un fratello maggiore, anche perché aveva solo 13 anni più di me. Era una personalità estroversa e mossa da un entusiasmo contagioso. Mi ricordo una sua frase: “Perché dovremmo studiare un problema se non ci divertiamo?”. È stato il più grande fisico teorico della nuova generazione».
L’opposto di un classico “barone”?
«Nella scienza, se non hai persone giovani che vanno nella tua stessa direzione, tutto diventa faticoso».
Oggi il film Oppenheimer ha riportato in scena lo scienziato carismatico e motivatore: Cabibbo era così?
«Ho appena letto la biografia di Abraham Pais, che lo conosceva bene: certamente anche Cabibbo possedeva questa capacità di entusiasmare».
Nella sua autobiografia, Gradini che non finiscono mai (La Nave di Teseo), lei ha raccontato quanto sia stata importante una grande scrittrice: chi era?
«Luce D’Eramo. La conobbi perché era la madre di un mio compagno, Marco d’Eramo. Aveva una personalità forte ed era dotata di grande empatia. Ci aiutava a capire noi stessi. E mi vengono in mente certe sue domande, tipo: “Tu, Giorgio, cosa stai studiando?”. Dovevo spiegare la fisica a una donna di lettere e trasformare le formule matematiche in parole. È grazie a questo sforzo che ho capito l’importanza di saper comunicare».
Luce d’Eramo le aprì un altro mondo.
«Luce per me era Lucetta. Grazie a lei conobbi Silone, Zavattini, Bellezza, Pecora, Paterlini ed Elsa De Giorgi, che purtroppo ricordano in pochi».
Ce la può ricordare lei?
«Attrice al tempo del “cinema dei Telefoni Bianchi”, regista e anche scrittrice. Fu la compagna di Italo Calvino. Mi fece delle interviste per TeleRoma56. La conobbi proprio tramite Lucetta: Elsa, per i suoi compleanni, organizzava ricevimenti enormi, anche con 200 persone. C’erano sempre tantissimi artisti e letterati».
Sembra che li abbia frequentati quasi di più dei fisici…
«Di fisici ne ho conosciuti tanti, ma i letterati mi hanno portato in un altro mondo. Mi viene in mente Silone, per esempio, che raccontava anche barzellette, anche se tutti lo ricordano come un uomo austero. E comunque, mia moglie è una grecista».
Lei ha appena presentato la riedizione di un libro di Luce d’Eramo con Paolo Giordano.
«S’intitola Partiranno (Feltrinelli). Ho scritto la prefazione, perché di questo romanzo, uscito per la prima volta nell’86, discussi a lungo con Lucetta: voleva che i viaggi spaziali di cui scriveva fossero plausibili e che non sembrassero calati dall’alto della fantasia, come se ci fosse un deus ex machina che li rendeva possibili. Un capitolo, poi, si svolgeva a New York e, dato che Lucetta non c’era mai stata, ci andammo con lei e mia moglie. Così avrebbe potuto descrivere tutto con precisione».
C’è un romanzo che l’ha segnata più di altri e che torna a rileggere?
«È la Recherche di Proust: la lessi a 20 anni, in un mese, dopo che mi ero rotto una gamba. Ora la sto rileggendo in francese, ma molto lentamente».
A proposito di maestri, i Nobel sono rimasti tra gli ultimi “saggi” universalmente riconosciuti: lei come si sente in questo ruolo?
«Dei Nobel si tende ad approfittare: gli si chiedono cose di cui non sono competenti e loro pontificano. Su Wikipedia c’è una voce dedicata alla “Nobel Disease”, la sindrome di chi, dopo il Premio, comincia a dire stupidaggini. C’è anche un elenco con 11 Nobel, tutti colpiti da questa malattia».
Lei come si difende dal contagio?
«Cerco di evitare di esprimere opinioni su argomenti che non conosco bene e di far capire che le opinioni non sono la stessa cosa della verità scientifica. Proprio qualche giorno fa mi hanno chiesto un parere su quale fosse la superficie della pasta più adatta a trattenere il sugo. Ho subito dirottato il giornalista a un amico che gli ha consigliato un esperto e poi anche uno chef».
Professore, da Nobel e da Accademico dei Lincei, è impegnato con i giovani: qual è il messaggio a cui tiene di più?
«Oggi ho la possibilità avere un minimo di influenza e cerco di esercitarla nel migliore modo possibile. Per me è importante diffondere la consapevolezza che la scienza è fondamentale per risolvere i grandi problemi che ci stanno di fronte: cambiamento climatico, pandemie, fame, salute. Mi piace spiegare che ci si deve fidare della scienza. E c’è un altro punto che mi sta a cuore».
Qual è?
«Che una guerra atomica è inconcepibile. Dobbiamo tornare a siglare trattati per la riduzione delle armi atomiche e per la proibizione del “first use”, vale a dire per impedire che ci siano risposte atomiche nel caso di attacchi convenzionali».
A chi si interroga e si tormenta sulla fisica che ha creato la Bomba che cosa risponde?
«Che la bomba ha rapidamente suscitato la reazione degli scienziati: sono loro che hanno convinto i governi a stilare e a firmare i trattati e sono loro che hanno condotto una diplomazia non ufficiale nel nome della pace. Penso a Joseph Rotblat e alle sue Pugwash Conferences che hanno vinto il Nobel della Pace nel 1995 per l’impegno a favore del disarmo. A ritirare il premio a nome dell’organizzazione fu il suo segretario generale e grande fisico italiano, Francesco Calogero. Peccato che l’evento, all’epoca, non suscitò la dovuta attenzione dei media». —