Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  novembre 12 Domenica calendario

Le lettere tra Ginsberg e Kerouac

Letteratura escrementizia. In una delle ultime lettere inviate all’amico Allen Ginsberg, l’aedo della Beat Generation, «un frocio cosmico», Jack Kerouac scrive di sognare merda. È il giugno del 1963 e Kerouac sogna tonnellate di merda. Anzi. Palloncini di merda. «Ho appena fatto un sogno alcolico in cui cacavo continuamente, che fossi in bagno o no, merda sparsa sul pavimento, sulle mani, le scarpe, in faccia, davvero, solo merda dappertutto, come palloncini...». Palloncini di merda. Forse è questo ciò che resta della Beat Generation. Merda. Geniali, genitali, ardenti, volitivi, Kerouac & Ginsberg & Co. sono riusciti a vendere merda. La merda è diventata merce, cioè un modello di dittatura editoriale escrementizia. Per vendere devi scrivere di merda. D’altronde, direbbe De André, «dalla merda nascono i fiori». Non sempre. Già nel 1995 Fernanda Pivano, la paladina dei Beat in Italia, si domandava se le opere di quel gruppo di valorosi sballati non fossero ormai «datate». Feltrinelli aveva ripubblicato la raccolta Poesia degli ultimi americani. Quell’antologia era stata ideata nel 1964, quando «gli animi erano incandescenti e i giovani sognavano ancora di far finire per sempre le guerre». Trent’anni dopo, la Pivano riconosce che la letteratura beat è legata a una stagione ormai irripetibile, quando «si sognava inermi fumando un po’ di marijuana innocente», le poesie «venivano lette in reading appassionati... e per anni i ragazzi dell’autostop le hanno portate con sé nel sacco a pelo insieme agli altri simboli della società dentro la società, Sulla strada di Kerouac o Howl di Ginsberg». La Pivano, forse, si era accorta che i Beat non erano Melville né Faulkner; li credeva, per strabismo critico, eredi «di Pound e di Eliot»; le era stato detto, nei rutilanti, libertini Sessanta, che i Beat «tutti insieme entrano forse nella storia del costume o al massimo nella sociologia, ma certamente non nella storia della letteratura». Preferì non crederci. Tuttavia, i Beat, per lo meno in Italia, sono una manna editoriale infinita: segno che il lettore italiano medio è vecchio, genericamente nostalgico, lisergico, poco curioso. Così, per dire, mentre ilSaggiatore ha pubblicato, in serie, tutto Ginsberg, a nessuno viene in mente di saggiare i poeti dell’altra America, semplicemente poeti, semplicemente geniali: Allen Tate, Robert Penn Warren, Robinson Jeffers, Elizabeth Bishop, per dire. Poeti, cioè, che raccontano un’America diversa dalla vulgata, individualità prepotenti che non permettono ai critici di inscatolarle in una generation; menti complesse, dunque editorialmente poco attraenti. A che ci serve, allora, leggere il mannello di Lettere tra Kerouac e Ginsberg, appena stampate da Mondadori (pagg. 640, euro 26)? A carpire le origini del movimento o meglio: le ragioni di un’amicizia, il tuffo carpiato che ha trasmutato l’oro della gioventù nella merda del successo planetario. Le lettere più belle, perciò, sono le prime, quelle delle letture notturne, matte e disperatissime, delle disparate esperienze, della vita folle. Kerouac, reduce da un arresto per favoreggiamento aveva aiutato Lucien Carr a liberarsi dell’arma con cui costui aveva ucciso l’amante, l’aitante David Kammerer, amico d’infanzia di Burroughs legge La Repubblica di Platone, si firma «Jean», ama il «modo antiborghese» di Rainer Maria Rilke, si sente un redivivo Thoreau. Allen Ginsberg, dal canto suo, preferisce William Butler Yeats, nel pieno di un’allucinazione gli appare lo spettro di William Blake, nel 1949 entra in manicomio per scoprire che «Siamo tutti pazzi. Sei pazzo anche tu». Nel reclusorio, legge i libri di Jean Genet («grossi romanzi apocalittici di un hipster omosessuale cresciuto in carcere»), i testi di Henri Michaux e quelli di «un matto morto recentemente di nome Antonin Artaud». Li preferisce al Finnegans Wake di Joyce, «troppi giochini con idee verbali e astrazioni storiche, per cui è difficile capirlo». L’addestramento letterario dei due ha per carisma droga & spompinare: la descrizione del viaggio in Messico gennaio 1953, alla volta di Neal Cassidy dice del talento pittorico di Ginsberg («Le stelle sopra le piramidi notte dei tropici, foresta di insetti che friniscono, uccelli e forse gufi una volta ne ho sentito il verso grandi portali di pietra, bassorilievi di ignote percezioni, antichi mezzo migliaio di anni e prima durante il giorno ho visto cazzi di pietra di mille anni ricoperti di muschio e merda di pipistrello»). La lettera di Kerouac da Denver, Colorado, scritta il 10 giugno del 1949 è già nell’onda di On the road: «Voglio essere lasciato in pace. Voglio sedermi sull’erba. Voglio montare il mio cavallo. Voglio scopare una donna nudi sull’erba di una montagna. Voglio pensare. Voglio pregare. Voglio dormire. Voglio guardare le stelle. Voglio quello che voglio. Voglio procurarmi e cucinare il mio cibo, con le mie mani, e vivere così. Voglio cavarmela da solo. Voglio affumicare della carne di cervo, stiparla nella mia bisaccia e andarmene lungo l’orlo dei dirupi». Quanto ai contemporanei, Jack & Allen confidavano in William Carlos Williams («Ci apprezza, sto per dargli i tuoi libri e gli mostrerò le tue lettere. È vecchio, e non hip nel modo in cui lo siamo noi, ma è l’innocenza fatta persona», così Ginsberg, febbraio 1952), apprezzavano Thomas Mann (ancora Ginsberg, maggio 1949: «Mann è vigoroso ed energico e giovanile; trasmette a tutti un pensiero elettrizzante ma di solito le persone non lo sanno e lui è stanco della gente; ma esalta la Vita»). Più che dall’India e da una esagitata esegesi del buddismo su cui si concentrano le ultime lettere (ma il Siddharta di Hesse è «niente di particolare»), la Beat Generation fu forgiata dalla lettura di Louis-Ferdinand Céline («Un libro! Ho rubato un libro. Voyage au bout de la nuit di Céline»: così Kerouac, a 23 anni) e di Ezra Pound (ancora Kerouac: «Ho scoperto i Cantos di Pound: finora non mi ero reso conto che la poesia era libera»), con Il tramonto dell’Occidente di Spengler a far da chiave interpretativa (ancora Kerouac: «Il più grande poeta tedesco è probabilmente Spengler per quanto cazzo ne so io»). Resta da capire che presa abbiano Kerouac & Co. oggi. Una decina di anni fa Giovanni Ungarelli, all’epoca direttore Marietti, già dirigente in Mondadori e Rizzoli, mi disse che il romanzo più bello del Novecento era Sulla strada. Stentai a crederci. Mi parlò di stelle, di vagabondaggi, di scrittura jazz. Insomma: nostalgia di un’adolescenza sessantottina. Ho fatto l’esperimento qualche giorno fa, in un istituto universitario per traduttori. Chi conosce Jack Kerouac? Qualcuno ha letto Allen Ginsberg? Niente. Cimiteriale silenzio dei ventenni. Un ragazzo alza la mano. Ha letto Bret Easton Ellis. Gli è piaciuto American Psycho, ha comprato Le schegge. Quando lo hai finito, dimmi cosa te ne pare, gli ho detto.