il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2023
Intervista a Maria Paiato
“Quando sono sul set ho sempre problemi di colite; Verdone mi ha dato consigli su ogni tipo di pastiglia. Per favore non mi chieda i dettagli”.
Colon e depressione sono un classico dell’attore.
Tocca a tutti noi; sono veramente pochi quelli che non li vivono entrambi.
Quindi per lei il set è una cosa e il teatro un’altra.
Il colon è tutto per il set; l’altro ieri ho iniziato le riprese di Vita da Carlo 3 e quando sono arrivata non riuscivo a restare dritta per le fitte. Ho capito subito.
Cosa?
La solita tensione che covava da tempo e che aveva deciso di palesarsi; eppure quel set non era nuovo per me, è la stessa troupe dell’anno scorso, ma non c’è niente da fare: fuori dal palco mi sento insicura, senza punti d’appoggio, primina, nel tentativo di addomesticarmi a un differente linguaggio.
Io sono da teatro.
(Maria Paiato è una delle assi, dei velluti, dei sipari più belli del teatro. Diplomata alla “Silvio D’Amico”, è una di quelle artiste che si è costruita con la pazienza di chi crede di non sapere, ma desidera approfondire; di chi non deve fuggire da provincia o famiglia per trovare lo stimolo, ma quello stimolo è la consapevolezza di una passione solida. Lei è teatro prestata al cinema “eppure non mi piaccio”; lei è teatro prestata alla serie “Vita da Carlo”).
Nasce e resta vocata al teatro.
Arrivo da lì insieme a Massimo (Popolizio, ndr), mentre il cinema è entrato successivamente e solo in alcuni momenti; (sorride) però sul set fingo bene, sembro giovialona, cerco di diventare amica di tutti così mi vogliono bene e magari sorvolano se combino qualche casino.
E ne combina?
Qualche volta, il peggio lo do se in una scena mi piazzano in mano qualche dispositivo elettronico, magari il cellulare. Lì gli altri sono bravissimi, io no.
Esempio.
In un film ho pure rotto una lampada, volevo nascondermi; già penso di essere la causa di tutto…
Il teatro è casa.
Conosco il linguaggio del palco, so starci e soprattutto richiede una condizione di intimità all’interno della compagnia, una situazione che mi appartiene: ci si ritrova alle due, si chiacchiera, ci si conosce, non ci sono disturbi, si resta al buio dietro le quinte; si ascolta.
Mentre il set.
È il caos con una preparazione lunghissima: il trucco, le luci, il cavo, gente che passa, che sposta, le inquadrature; gli attori di cinema sono un portento di concentrazione, li ammiro e un po’ li invidio.
Ha bisogno di ritualità.
Sono lenta e metodica, mi ritrovo nelle situazione calde e pacate; sul set fingo tranquillità, eppure mi sto cagando sotto.
In Vita da Carlo è la domestica di Verdone ed è bravissima.
Spesso mi è capitato di interpretare donne che arrivano dal popolo. E mi piace; (resta in silenzio) quando ho visto la serie ho ammirato attori straordinari e per me una sorpresa è stata la comicità di Monica Guerritore: una mattacchiona, non conoscevo questo suo lato; (pausa) mentre Carlo è una pasta di mandorla.
Il cinema attinge molto dal teatro.
Quando ho iniziato noi teatranti non eravamo apprezzati dal cinema, poi sono arrivati registi come Sorrentino e Martone che hanno accorciato le distanze e nel frattempo lo stesso teatro è cambiato.
Come?
Già con i microfoni: oggi non è necessario declamare.
Ne fa uso?
Capita, e si dà valore pure alle situazioni piccole, si può raccontare in chiave intima, non dico sussurrando, ma quasi.
Carmelo Bene lo utilizzava.
Con lui pure l’apparato tecnico diventava parte dello spettacolo; il suono era fondamentale e lui era ipnotico; ricordo un suo spettacolo a Firenze, Pinocchio: c’erano suoni assurdi, buttava a terra di tutto, fracassava e non si sentiva nulla. Era un tipo di ricerca…
Alla fine è andata nei camerini?
No, mi sono vergognata.
Nel 1981 è entrata all’Accademia di Roma “Silvio D’Amico”.
Arrivavo da un paese della provincia di Rovigo, da una famiglia semplice con papà elettricista e mamma casalinga; (sorride) avevo appena finito Ragioneria, diplomata con 49, senza meriti: dovevo diventare la colonna amministrativa della ditta di impianti elettrici di papà.
Senza meriti?
Ho subito avuto la sensazione che quel 49 me lo avesse assegnato la vita, come per dirmi “vai fuori dalle balle, non restare qui”; questo perché gli ultimi due anni delle superiori ho incontrato il teatro e la sera papà mi portava a Ferrara da una compagnia di teatranti.
Al lavoro?
Combinavo disastri.
E l’Accademia?
La scopro grazie alla radio: una mattina ascolto una trasmissione in cui interviene Edmonda Aldini; proprio lei parla della “D’Amico” e conclude con una frase: “Se qualche ragazzo vuole saperne di più, mi telefoni”. Spengo. Cerco sull’elenco. Trovo il numero. Chiamo.
E…
Decido di provare, ma dopo un patto con mio padre: potevo tentare una volta sola, “se non ti prendono torni a casa”.
Cosa ha portato all’esame?
Di teatro non sapevo nulla: avevo visto giusto L’anitra selvatica con la regia di Luca Ronconi, dove non ho capito una mazza, però mi era sembrato qualcosa di meraviglioso…
Quindi?
Mi sono affidata ai classici, alla Lisistrata di Aristofane; ho aggiunto Digitale purpurea di Pascoli, poesia lunghissima, infinita, gli ultimi versi li ho improvvisati.
Com’era Roma?
Città pacioccona.
Roma?
Se volevi, potevi metterti facilmente nei guai, ma io avevo un solido nucleo di concretezza e negli anni mi sono resa conto che i miei genitori hanno svolto un gran lavoro; (sorride) poi la mia classe era molto solida, ci supportavamo.
Chi c’era?
Oltre a me e Popolizio è uscito fuori Luca Zingaretti; Massimo è diventato subito l’attore di culto di Ronconi, Luca dopo qualche anno è esploso con il ruolo di Montalbano.
Nel 1981 erano dei predestinati?
Massimo sì, già all’epoca aveva un pensiero determinato, eppure era simpaticissimo, ricordava molto Gigi Proietti.
Lei è una ronconiana?
No, perché ho incontrato Luca nell’ultima parte della sua vita e ho partecipato a cinque spettacoli.
Non sono pochi.
Però sono arrivata da lui strutturata; (pausa) da sempre sognavo di lavorarci; da sempre ho amato la sua capacità di creare mondi, l’ampiezza del palcoscenico, il coraggio; ogni tanto, quando lo incontravo, gli buttavo lì la frase: “Maestro, mi piacerebbe…”. Ci ho messo vent’anni.
Peccato o meglio?
Meglio così; Ronconi non era un tipo semplice e quando mi sono trovata davanti a lui mi son detta “meno male che ci sei arrivata dopo 25 anni”.
Addirittura.
Avevo acquisito delle certezze, ero più solida; (ci pensa) con me è sempre stato spettacolare, solo ne La Celestina si è accanito, mi ha presa di punta, e la mia testa passava dal “vado in direzione e straccio il contratto” fino al semplice “mi hai rotto le palle”. Odio assoluto.
Il teatro è anche questione di ego.
È un lavoro in cui l’ego è un requisito quasi fondamentale; senza, non puoi stare su un palcoscenico dove ti giochi la persona e la pelle.
Il suo?
Esiste, ma non è così affamato; poi con il tempo ho capito che la mia vita deve essere composta pure di altro.
Tipo?
Mi piace stare a casa, occuparmi di mia sorella, dei nipoti; mi piace scartavetrare i mobili e fingere di essere una brava falegnama; mi piace leggere, riflettere, girare. Poi ho 62 anni e li sento. E dal 2013 sono tornata a vivere in paese dopo trenta e passa anni di Roma.
Quali sono le tre istantanee mentali legate alla Capitale.
La prima? Io che esco dall’Accademia alla sette e mezzo di sera e verso il ponte di Castel Sant’Angelo trovo un maniaco che sotto il cappotto si masturba; per un mese ho girato con le forbici nella manica del capotto.
Altra cartolina.
Via del Corso, camminavo e restavo impressionata dal numero di presenti, mi sembrava di non vedere il cielo, di stare sempre al chiuso e nella mia ingenuità paesana mi stupivo di non incontrare mai la stessa persona.
Terza cartolina.
I professori dell’Accademia, da Paolo Panelli a Monica Vitti, io con gli occhi spalancati, incredula, per me erano solo dei divi della televisione, quando stavo seduta sul divano con i miei genitori. E invece mi parlavano, gli davo del tu, allora immaginavo cosa avrebbero detto in paese.
Ha lavorato molto con i Vanzina…
Quando mi hanno preso non ero nessuno, neanche per il teatro; (cambia tono, serissimo) grazie a In questo mondo di ladri mi sono comprata il motorino e per me è stata una bella palestra per prendere confidenza con quel linguaggio lì.
C’è riuscita?
Secondo me no; quando mi rivedo, a volte, chiudo gli occhi, mi ascolto e trovo il recitato buono, mi soddisfa; poi li apro e credo di non avere il controllo sulla mimica: da come spalanco gli occhi a le smorfie della bocca.
Oltre a Ronconi, da chi ha imparato…
Mario Scaccia, Gabriele Lavia e Popolizio; Massimo, quando lo andavo a vedere a teatro, restavo senza fiato.
Di Lavia, cosa?
È una fonte inesauribile di ispirazione; lui è il teatro, dall’uso della parola importante alla voce meravigliosa, fino al velluto del palcoscenico. Lui è quel calore lì. Lui è il legno che respira.
Vuoti di memoria?
(Sospirone) Mi è capitato tre volte e sono stati tre momenti terribili, dove mi sono giocata un po’ di salute; un po’ di salute pure per il dopo.
Risolti, come?
Ho riflettuto che il pubblico gode di essere spettatore pure della fragilità e dell’inciampo, quindi inutile flagellarsi.
Ha mai pensato di mollare?
Negli anni 90 capitavano lunghi mesi nei quali non c’era lavoro e ogni volta mi ripetevo “basta, se non cambia lascio”.
Ha mai svolto altri lavori?
Una volta ne parlai a mio padre e reagì malissimo: “Non ci pensare, le tue energie mentali e fisiche devono stare lì. Finché ci sono io vai avanti”.
I suoi genitori hanno assistito al successo?
Sia mia mamma Bruna che mio padre Servan, poi c’è mia sorella Milla. Per favore scriva i loro nomi, ci tengo.
Chi è lei?
Una persona che ha uno sguardo sul mondo spaventato; una che si è fatta molto coraggio.