Avvenire, 12 novembre 2023
Reportage da Hebron
Il cielo sopra Hebron-2 è un reticolato di ferro. Il suo azzurro accecante è sminuzzato in una maglia di quadrati metallici su cui sono adagiati cocci di bottiglia, lattine, pietre. Resti della battaglia che si rinnova notte dopo notte tra i coloni, arroccati sulle colline, e i palestinesi di questo frammento di Cisgiordania sotto amministrazione militare israeliana. Sono stati gli accordi di Oslo a spezzare Hebron in due. La gran parte – “H1” – è stata assegnata all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Allo Stato ebraico è rimasto, però, il cuore antico –”H2”–, costruito intorno alla grotta di Macpela dove riposa il patriarca Abramo e dove, nella Pasqua del 1968, il rabbino Mosge Levinger ha fondato il primo avamposto ebraico nei Territori: Kyriat Arba, culla del nazionalismo religioso radicale e patria del leader dell’ultradestra nonché attuale ministro della Sicurezza, Itamar Ben Gvir. La divisione, sulla carta, doveva terminare nel 1999. Nella realtà, si è protratta a tempo indeterminato mentre i residenti degli insediamenti si sono moltiplicati. A Kyriat Arba – che ha raggiunto quota 7.500 abitanti – si sono sommate le propaggini di Ramat Yeshai, Abraham Avino, Beit Romona e Beit Hadasa – 700 persone in totale –, i cui edifici di cemento cingono in un abbraccio soffocante le case di pietre e il mercato vecchio dei palestinesi. Finestra contro finestra, porta contro porta, le costruzioni sono addossate le une alle altre: dall’alto e dai lati la prossimità è asfissiante. E genera scontri quotidiani a suon di sassaiole, getti d’acqua, rifiuti scagliati, insulti e minacce. La comunità araba di 35mila persone si è trincerata dietro una barriera di grate che sovrasta perfino i vicoli tra le abitazioni e i negozi. «Lo stato d’assedio per “H2” è routine quotidiana. Mai prima d’ora, però, eravamo arrivati a una situazione tanto surreale. Dal 7 ottobre siamo agli arresti domiciliari», afferma Issa Amro, 44 anni, attivista di “Youth against settlements” e “Friends of Hebron”, in prima linea per la resistenza non violenza all’occupazione israeliana. Il difensore dei diritti umani ci incontra a Heben Roshd, piazza nel centro di “H1”, dove è stato costretto a trasferirsi.
«Il 20 ottobre i militari mi hanno ordinato di lasciare “H1” per “questione di sicurezza”. Non mi hanno dato modo di replicare. Ho avuto paura che mi ri-arrestassero come il 7 ottobre. Quella mattina, appena sono arrivate le prime notizie dell’assalto di Hamas ai kibbutz del Sud, un gruppo di coloni e soldati ha fatto irruzione in casa mia e mi ha trascinato alla base militare. Per dieci ore mi hanno tenuto bendato e legato, mi hanno pestato, minacciato, insultato», racconta, mentre mostra i tagli sulle mani con le quali ancora non riesce a scrivere. «Mi gridavano: “Sei un sostenitore di Hamas”. Proprio a me che sono da sempre un nonviolento. Nel massacro ho perso due amici, si trovavano al festival di Re’im e sono stati assassinati dai miliziani islamisti. Altri amici sono morti nei bombardamenti su Gaza. Che senso ha accanirsi sui civili? La strage perpetrata dal gruppo armato è ingiustificabile. La maggior parte dei palestinesi la pensa come me anche se non tutti lo ammettono. Il punto è che Hamas è una conseguenza della guerra e non la causa. Con l’offensiva sulla Striscia, Israele non difende se stessa ma l’occupazione. Una sicurezza di lungo periodo non può costruirsi con le armi. La soluzione è politica: o due Stati o uno solo con piena uguaglianza di diritti. L’alternativa è un conflitto permanente in cui perdiamo tutti», dice mentre indica le serrande abbassate sulla via principale di “H1”, i cui 250mila abitanti producono il 40 per cento del reddito della Cisgiordania. O, meglio, producevano. Con l’accesso alla città bloccato e i permessi di lavoro a Israele congelati in risposta alla strage di Hamas, l’economia è ferma. I ristoranti italiani, i fast food, le rivendite di marchi internazionali, come si legge sulle insegne, sono chiusi ormai da settimane.
«Questo è niente, però, rispetto a quanto si vive ad “H2”». Nei quattro giorni successivi all’eccidio di Hamas, le forze armate israeliane – Tzahal dall’acronimo – hanno impedito ai 35mila abitanti di uscire di casa. «Non potevamo nemmeno andare a comprare da mangiare. Abbiamo dovuto accontentarci di quel che avevamo in casa», spiega Nisrin, seduta sul grande tappeto del soggiorno, la cui finestra si affaccia su Beit Hadasa e, per questo, la tiene sempre chiusa. Il lockdown, poi, è stato ridotto a ventidue ore la domenica, il martedì e il giovedì, giorni nei quali i residenti possono uscire per un’ora al mattino e una la sera. Il resto del tempo non possono lasciare la propria abitazione nemmeno per andare dal dottore o in farmacia. Medici senza frontiere (Msf), impegnata nell’area dal 2001, ha denunciato una gravi restrizioni nell’accesso alle cure. Le scuole, almeno, sono rimaste aperte. Ma le tre figlie di Nisrim non possono andarci perché lei, come tutti i genitori, non hanno l’autorizzazione di accompagnare i bambini. «Come posso mandarle da sole? Per arrivare a scuola devono passare vicino agli insediamenti dove i coloni cercano in tutti i modi di terrorizzare i bambini. A uno hanno tirato le pietre la settimana scorsa. A un altro gli hanno gridato che avrebbero ucciso i genitori. Alcuni insegnanti si sono offerti di fare lezione online ma la connessione è troppo debole. L’esercito non interviene? Le racconto una cosa. Due giorni fa sono salita sul tetto per controllare la cisterna. Qualcuno da Beit Hadasa mi ha vista e ha chiamato i militari. Sono venuti a casa armati fino ai denti e mi hanno che non potevo uscire se non nelle ore consentite. Altrimenti possono spararmi». Lo stesso messaggio che i residenti di “H2” hanno ricevuto all’indomani del 7 ottobre, via WhatsApp.
Non si tratta solo di parole. Secondo fonti umanitarie locali, una trentina di palestinesi è stata uccisa nell’ultimo mese nella zona compresa tra “H2” e i villaggi situati nelle colline meridionali in scontri con le forze di sicurezza. Le ultime due vittime risalgono a giovedì. Il 30 per cento delle famiglie ha fatto i bagagli e si è rifugiato altrove da parenti e amici per sfuggire agli attacchi sempre più frequenti dei coloni che, spesso, sono entrati nell’esercito come riservisti. L’ufficio Onu per i diritti umani ha denunciato un incremento delle aggressioni dei Territori, passate da una media di tre al giorno da gennaio a settembre alle attuali sette. A Hebron sono almeno dieci. «In poco più di un mese da me i soldati saranno venuti sette o otto volte. Perquisiscono tutto e mi chiedono dove ho nascosto le armi. Ma io non ho armi. Lo hanno visto loro stessi però continuano a tornare», dice Abed, che confeziona stoffe tradizionali con la macchina da cucire adagiata sul tavolo di cucina. Poi rivende sciarpe, borse, tovaglia nel suo negozietto del mercato vecchio. «Ho dovuto chiudere, come tutti. Per sopravvivere lavoro a casa e vendo a domicilio. I turisti, però, non ci sono più. Non so quanto ancora potrò resistere. Per la prima volta, penso che sarò costretto ad andare via». «È quello che vogliono. Lo hanno sempre voluto, ora finalmente sanno di poterlo ottenere», ribatte Nisrin. Dieci giorni fa, sui muri dei vicoli di H2 sono comparse le scritte: «Morte agli arabi» e «sarà una nuova Naqba», in riferimento all’esodo di 700mila palestinesi dopo la partizione del 1948. Sulle pietre vicino al checkpoint che presidia l’accesso alla colonia di Beit Hagai, si legge ancora un pezzo di frase. Impossibile fotografarla. Il soldato minaccia chi si avvicina con il fucile: «Non c’è niente da vedere. Da che parte state voi giornalisti?».