La Stampa, 12 novembre 2023
Alessandro Barbero racconta la rivolta dei Ciompi
Una rivolta con segni di modernità, anche se forse è stata un caso unico almeno da noi. Alessandro Barbero, oggi alle 17 alle Ogr di Torino, propone la sua ormai celebre lezione sul Tumulto dei Ciompi, che insanguinò Firenze tra il giugno e l’agosto del 1378. Sembra un episodio lontano, di cui al più abbiamo qualche nozione tra i ricordi liceali. Invece è una storia importante e persino affascinante, che racconta una rivolta di salariati e in genere di popolo minuto, e arrivò a un passo dal trasformarsi in rivoluzione, ovvero di cambiare in modo duraturo la situazione esistente. E forse ha qualcosa, molto, su cui farci riflettere. È questo il motivo per cui interessa così tanto allo storico?
«Le storie delle rivolte sono sempre interessantissime – ci dice Barbero, che al tema ha dedicato il recente All’arme all’arme! I priori fanno carne (Laterza) – forse perché toccano da vicino ciò che rimane in noi di sinistra; ma questa è un poco diversa. Nel Medioevo ci sono state numerose rivolte contadine, non prive di una loro lucidità e di una precisa consapevolezza dello sfruttamento patito, però proponevano soluzioni semplicistiche, in pratica un atteggiamento nei confronti dei potenti che può essere riassunto in un “ammazziamoli tutti"». Qui invece i ciompi, ovvero gli operai soprattutto tessili, che lavoravano in casa la lana per gli imprenditori, hanno una sorta di progetto, anche se destinato al fallimento: entrare a far parte attiva del governo della città. «Non dimentichiamo che ci troviamo in una Firenze dove comandano gli uomini d’affari e gli artigiani, piccoli o grandi. C’è già, nel sistema delle “arti”, ovvero delle corporazioni divise per mestiere, una sorta di Confindustria, oltre a una Confartigiano e una Confesercenti; che governavano direttamente attraverso l’istituzione dei consoli, estratti a sorte all’interno delle arti. I ciompi chiedono di fare parte del sistema». Una specie di lotta sindacale? «Non solo quello. Sanno che il diritto di organizzarsi in arti vuol dire governare». Lotta di classe? «Ricordo che all’università, quando ero studente, se ne discuteva, ma tendenzialmente per escludere una definizione del genere. In realtà penso che sia proprio così».Barbero è un grande narratore, come si sa. Le sue lezioni sono molto efficaci, come testimonia del resto il successo su YouTube, drammatizzate con sapienza, fra gravità e tocchi di humour. Questa comincia con il gonfaloniere Salvestro de’ Medici, ovvero il responsabile della polizia, il legittimo detentore della forza, che chiede in consiglio di inasprire le leggi contro i magnati, quei nobili, che non lavorano e le cui ricchezze provengono dalla proprietà terriera (e a volte da compartecipazioni con gli imprenditori); la Repubblica Fiorentina li vede come gli avversari più pericolosi (non a torto, si direbbe), e per limitare il loro potere li esclude dalle cariche pubbliche. Nel 1378 non c’è però alcun vero problema su questo fronte; ma il gonfaloniere è in cerca di visibilità e consenso. È una situazione, spiega lo storico, che in fondo abbiamo già vista molte volte: perché le parole d’ordine ideologiche, anche se superate e inattuali, riescono facilmente a mobilitare gli animi (proprio come avviene da tempo nella nostra politica, del resto; si pensi ai “comunisti” di Berlusconi: e potremmo anche arrivare molto più in qua). In quell’estate del 1378 il fantasma del “nemico” fa così il suo sporco lavoro, e la contrapposizione fra il Gonfaloniere e il consiglio dei dieci avvia un processo incontrollabile.Le arti, il popolo, insomma inteso come tutti coloro che hanno un’attività, anche piccola, insorgono: ma trascinano con sé anche la “plebe”, i salariati e i poveracci: e la rivolta diviene quasi una rivoluzione, perché i ciompi, nome inventato in quel momento per definire gli operai ribelli (fa pensare ai “casseur” delle periferie francesi), riescono non solo a prendere la piazza ma anche a ottenere risultati: per esempio di essere organizzati anch’essi in “arti”, insomma di entrare a Palazzo Vecchio addirittura con un loro Gonfaloniere di giustizia. Scorre il sangue, naturalmente. Il titolo del libro nasce dall’allarme laniato da un orologiaio che nel palazzo del governo è il solo ad ascoltare quanto accade nel Consiglio dei dieci; «fanno carne» significa «ammazzano». È il segnale per il popolo minuto, che a questo punto si lancia all’attacco, fra saccheggi e uccisioni.Chiediamo allo storico se non sia azzardato parlare di populismo, visto che i rivoltosi non riescono a conservare ciò che hanno conquistato, vengono rapidamente sconfitti – peraltro abbandonati e traditi dai loro stessi rappresentanti. La risposta forse non è priva di ironia: «A dirla tutta non ho mai capito bene che cosa voglia dire esattamente populista. La mia opinione è che oggi in Italia (nel mondo non saprei) sia usata per indicare quanti si rifiutano alla pretesa di certi partiti di spiegare loro quali interessi debbano avere e quali no. Quella dei ciompi è una rivolta popolare, non populista, anche se non mancano figure demagogiche: pensi a Salvestro de’ Medici». Da tempo la storia non è più considerata “maestra di vita”, però questa vicenda qualcosa potrebbe insegnarci. «Non c’è dubbio. L’idea che la storia avesse una sua intrinseca legge è caduta, però resta il fatto che rappresenta quantomeno un campionario di situazioni. In questo caso è evidente che i ciompi non erano maggioranza in città, e riuscirono ad avere successo quando convinsero gli artigiani a schierarsi dalla loro parte».Ma li spaventarono. «E i grossi imprenditori ebbero partita vinta. Un meccanismo del genere spiega molti esiti elettorali italiani. A volte mi sembra di aver rivissuto nei suoi meccanismi la rivolta stessa, visto che i partiti dei lavoratori non hanno mai avuto una maggioranza, hanno dovuto cercare alleanze, non sempre con successo. Proprio come i ciompi». La considera una storia ad alta valenza politica? «La considero soprattutto una storia grandiosa da raccontare, e dalla quale si impara qualcosa. Oltretutto, a Firenze c‘erano in quel momento molte persone che sapevano leggere e scrivere, e ci hanno lasciato i loro resoconti, anche a favore dei rivoltosi. È una storia che si appoggia su fonti bellissime».