la Repubblica, 12 novembre 2023
Biografia di Jannik Sinner
Geschickt. La usano in montagna, questa curiosa parola, per definire le persone che la sanno lunga, nella fattispecie Jannik Sinner. «È molto più intelligente di quello che sembra, e di quanto lui lo faccia sembrare». E se poi lo conferma un sardo quale Angelo Binaghi,presidente della Federtennis, allora la cosa é ufficiale.Jannik Sinner. Anni ventidue. Tennista. Capelli rossi, come alcuni illustri suoi colleghi del passato: Don Budge, Rod Laver, Boris Becker, Jim Courier (negli albi d’oro degli Slam c’è una quota alta di trionfatori con i capelli rossi, lo sapevate?). È già il numero quattro del mondo, esattamente come Adriano Panatta nel 1976, e può vantare dieci tornei conquistati. È il fenomeno che la racchetta azzurra aspettava da una vita, che credeva di aver trovato in Matteo Berrettini che poi s’è perso per gli infortuni. All’alba delle Atp Finals di Torino, che cominciano oggi per proclamare e celebrare il «Maestro» del 2023 c’è anche lui, e non come comprimario. Ma quale parte reciterà beh, questo potrà dircelo soltanto lui.Un viaggio che comincia da lontanoJannik è già professionista da cinque anni. Dal 2018 ha scalato inesorabilmente le classifiche. Ma se vogliamo conoscere la sua storia dobbiamo comprendere il viaggio della sua vita, che somiglia tanto a un racconto di formazione, e comincia nel 2015. In montagna, in fondo alla pista da sci che scende dal Monte Elmo, nelle Dolomiti di Sesto. È qui che un bimbo piccolo piccolo, capelli rossi in libertà, lunghissimi, muove i primi passi e cresce tra i larici che crescono ai piedi del sentiero che poi porta alle Tre Cime di Lavaredo mentre papà Hanspeter cucina canederli nel rifugio in Val Fiscalina e mamma Siglinde si occupa di mettere a proprio agio tutti gli avventori. Non è lo scenario propedeutico per l’uso di una racchetta, ma è questa la meraviglia della vita: si diverte a sparigliare le carte. «Lo sci mi piace. Ma non è un gioco. E a me piace giocare» dirà un giorno Jannik. Ma andiamo con ordine, affinché la storia comincia prendere forma.Destinazione BordigheraCome tutti i sudtirolesi di montagna con gli sci ai piedi (perché se nasci nella neve vuoi sempre provare a sentire quanto è calda), il piccolo Jannik «era un bambino che pensava molto» (papà Hanspeter dixit). Anni dopo, Jannik confermerà a Riccardo Piatti, il coach: «Non riesco a tenere ferma la testa». Il suo primo maestro di sci, Andreas Schönegger, notò qualcosa. «Era diverso. Non assomigliava agli altri. Non cercava di divertirsi: voleva imparare». A sette anni sciava sul passo di Monte Croce, a otto era campione italiano di gigante. A Sesto lo vedono come un nuovo Thoeni, non immaginavano che avrebbero avuto invece un nuovo Panatta. «Lo decise, si concentrò e lo fece» ha raccontato successivamente nonna Maria, che Jannik torna a salutare appena può. Ma come è stato possibile un simile switch tra sci/tennis? Per quali ragioni?La prima fondamentalmente è dovuta al rapporto padre/figlio: Jannik aspetta che il padre finisca di cucinare nel rifugio per giocare insieme sui campi di tennis a Moso, il paesino accanto. E qui il clic decisivo, di Heribert Mayr. Un maestro di tennis, un uomo di campo. Un’occhiata, una seconda e alza il telefono: «Alex, c’è un ragazzino che devi vedere…». Alex è Vittur, ex tennista e compagno di Andreas Seppi, già allievo di Max Sartori, altro storico coach. Quest’ultimo apre il cuore della famiglia Sinner: «Io ero l’allenatore di Seppi, nativo di Caldaro. Ecco: sono tante le analogie tra le famiglie Seppi e Sinner. Entrambe hanno reso i figli molto indipendenti fin da piccoli, li hanno cresciuti facendogli fare tanti sport, non solo il tennis, e sono rimaste sempre fuori dalle decisioni tecniche. Per loro io fui il garante del progetto, perché chiesi loro di fidarsi di noi. E lo fecero perché in Alto Adige tutti conoscono la storia di Andreas Seppi e la serietà del nostro lavoro».Quello che Sartori non poteva sapere è che la strada era stata aperta da una decisione familiare, come poi ha rivelato mamma Siglinde: «Io avevo paura della velocità, e non volevo facesse la discesa libera. Un incidente, e non torni più il bambino di prima». Santa e saggia mamma (che il tennis non smetterà mai di ringraziare): Jannik decide di accontentarla. «Mi disse: papà, non scio più, voglio fare il tennista. Ho capito che non stava scherzando». Così Hanspeter rispose allora alle richieste di Max Sartori: «Nostro figlio è abbastanza grande, e vuole giocare a tennis. A noi però preme che impari come si diventa una persona, anche dedicandosi a una passione. Mal che vada avrà fatto il massimo. Chiediamo solo di stargli vicino».È così che andarono le cose. Max Sartori, che all’epoca collaborava con Riccardo Piatti e la sua Academy a Bordighera, pensò che quella, la Liguria, potesse essere la location ideale per la crescita del ragazzino. D’altronde anche Piatti, dopo averlo visionato, se n’era innamorato. «Mi si era aperto il cuore, cosa che non mi accadeva da anni. E che forse non mi era mai accaduta. Considero Jannik il riassunto di tutta la mia vita sportiva» ha scritto Piatti nel suo libroIl mio tennis.Nel quale racconta anche il suo incontro con la famiglia Sinner. «Mio figlio è stato campione italiano di sci, ma quello che vuole davvero è giocare a tennis. Sai che noi non potevamo avere figli? Però non ci rassegnammo e decidemmo di adottare. Non senza fatiche burocratiche: e arrivò Mark. Poi, contro ogni previsione, arrivò ‘naturalmente’ anche Jannik. Ti racconto questo solo perché voglio che tu capisca chi siamo. Jannik deve fare quello che si sente, con libertà. Non ci saranno freni da parte nostra» gli dissero Hanspeter e Siglinde. Probabilmente Piatti ne rimase piacevolmente stupito: anche lui non poteva capire fino in fondo qual è la filosofia, lo stile di vita di chi vive in montagna. «Abbiamo confidenza con lo stare soli – parole sempre del papà – i villaggi sono piccoli, le montagne grandi. Devi cavartela senza chiedere aiuto. Fai subito i conti con te stesso: l’istinto spinge meno verso i giochi di squadra».Dalla montagna al mareIl trasferimento fu comunque graduale. Jannik ricorda il suo nostalgico voltarsi indietro, durante il viaggio in macchina e, soprattutto, quando i genitori presero la strada del ritorno verso Est, le Dolomiti, le lacrime trattenute da lui, ma anche da loro al momento dei saluti. «Ma non soffriva mai disaudade,era sereno e stava bene a casa di Luka Cvetovic (membro dello staff e papà di bambini piccoli, poi diventati i responsabili di aver contagiato Jannik con la fede calcistica milanista). «Quando lo portai a Roma, al torneo, sembrava essere nel suo ambiente naturale. Erano tutti buoni segni: significava che sapeva adattarsi e che era contento di farlo» ha ricordato Piatti. I piccoli ostacoli quotidiani venivano superati in qualche maniera: «Il fatto è che i miei genitori mi hanno insegnato a cavarmela da solo. Ricordo che fino a quindici, sedici anni, chiamavo mia madre quando perdevo un match: non piangevo, ma ero dispiaciuto e avevo bisogno di essere confortato. Ma lei mi rispondeva sbrigativa, perché era sempre molto indaffarata nella baita e mi liquidava così: ‘Scusami ma non ho tempo di parlare, devo lavorare’. Per questo motivo ho dovuto imparare a gestirmi e a tirarmi fuori da solo dalle situazioni complicate».Alla fine la scelta è giusta: Simone Vagnozzi, marchigiano doc, ha un curriculum molto simile a quello di Vincenzo Santopadre (ex coach di Matteo Berrettini), tennisti che hanno giocato nel circuito Atp senza però sfondare. Atleti non baciati dalla natura, che hanno dovuto fare di necessità virtù imparando a essere degli allenatori in campo: il passaggio successivo – a fine carriera – è stato automatico. «Mi piace l’idea di costruire, partendo dalle basi e organizzando un lavoro che darà frutti nel futuro. È molto soddisfacente riuscire ad aiutare un ragazzo nella sua crescita. Io, a 16 anni, sono dovuto andar via da casa per andare da Sartori a Caldaro, nel profondo Nord Est: nelle Marche, infatti, era difficile trovare una situazioneche mi permettesse di arrivare al professionismo». Questo racconta molto di Vagnozzi, che aveva già avuto un momento di celebrità accompagnando – da coach – Marco Cecchinato alla semifinale del Roland Garros 2018, risultato che non si verificava dai tempi di Corrado Barazzutti (1978). Ma, cosa più importante, aveva poi confermato la bontà del suo lavoro con Stefano ‘Steto’ Travaglia, facendogli sfondare il muro della Top 100 partendo da una classifica da retrocessione. Dopo, però, s’è dedicato alla sua accademia privata. La scelta di Sinner su di lui cade proprio mentre Vagnozzi sta riconsiderando i suoi propositi professionali: «Ho voglia di tornare a essere coinvolto in un progetto importante. Mi manca la tensione del dover portare il mio allievo al risultato, l’adrenalina quotidiana che si vive nel Tour durante i tornei importanti e i match di prestigio. Quando alleni un professionista, il risultato è la parte più importante. Anche lì bisogna pensare alla crescita tecnica, tattica e fisica, ma è un discorso completamente diverso. Detto questo, non ho fretta, e voglio aspettare il progetto giusto, dal momento che vorrei allenare un ragazzo con ambizioni alte, avere tra le mani un giovane con un potenziale ancora non del tutto espresso, magari attorno ai 21-22 anni, con il quale costruire con le mie idee e raggiungere buoni risultati. Uno straniero? Non sarebbe importante. Con un giocatore italiano sarebbe più facile per una questione di comunicazione. Parlo bene l’inglese, ma, esprimendomi in italiano, credo di poter trasferire molto di più le mie sensazioni del momento. Sarebbe comunque una sfida, uno stimolo in più». Non suona incredibile? Disegnati entrambi l’uno per l’altro, due curriculum vitae che non dovevano far altro che incrociarsi. Cominciano ad annusarsi, a conoscersi a Montecarlo. Vagnozzi è molto più giovane di Piatti, Jannik può resettare e ricominciare. Lo conferma lui stesso quando svelerà il perché dell’addio a Piatti: «Non c’è nessuna verità scabrosa, nessuna sveglia al mattino con la voglia improvvisa di cambiare tutto. Semplicemente era venuto il momento di prendere una decisione per provare a diventare un giocatore ancora migliore. È stata una scelta unicamente personale, senza influenze esterne, come tutte quelle che ho assunto nella mia vita. C’era l’esigenza di un passo avanti. Quando sei un giocatore professionista devi tenere conto di tutti gli aspetti. Tecnico, fisico e mentale: conta l’insieme. Io non dimentico tutti gli anni con Riccardo, e dove mi hanno portato. Ma avevo bisogno di uno scatto. E sono convinto che non tutti avrebbero avuto il coraggio di prendere una decisione come la mia». Rieccolo, il bambino «chepensava molto» e che conferma come il provare a essere un campione non è un fatto sportivo. Bisogna essere capaci di immaginarlo.Sinner 2.0L’ambientamento procede senza apparenti ostacoli. Ecco cosa disse all’inizio Sinner di Vagnozzi: «Mi capisce al volo. Ci confrontiamo su ogni cosa e quando gli dico cosa mi servirebbe, lui sembra conoscere già la risposta. Ovviamente dobbiamo conoscerci molto più a fondo, ma il nostro rapporto già mi tranquillizza. Su alcune cose stavo già lavorando prima, si tratta di concentrarsi su determinati aspetti. In questo momento, ovviamente, non sento ancora il feeling con le scelte in campo, ma un giorno verrà naturale giocare uno slice di rovescio oppure scendere a rete: sarà domani, tra due mesi o tra un anno, ma arriverà il momento. Fermo restando che io rimango un giocatore aggressivo da fondo campo». Si era a marzo 2022, e nasce il self-made man: Jannik Sinner, libero dal coach mentore, è professionista di se stesso, una sorta di imprenditore. Il ragazzino che si incordava da solo le racchette per risparmiare, ha fatto due conti e ha capito che se davvero vuole toccare il cielo, se davvero vuole crederci, deve investire. Nasce il ‘Sinner Team’, con StarWing, professionisti media/marketing, e una nuova squadra tecnica. Intuisce che non potrà/ dovrà costringere Vagnozzi a essere con lui h24, e che necessita di un altro coach. A questo punto, non deve essere uno qualunque. E sul mercato c’è il tipo giusto, un allenatore che ha guidato tre numeri uno del mondo: Lleyton Hewitt, Andre Agassi e Simona Halep. Si chiama Darren Cahill, è australiano. Il quale dice di sì alla chiamata. «Sono finito nella mafia italiana» scherza sempre, lui che è soprannominato ‘Killer’ (ma solo la moglie e gli amici posso permettersi di chiamarlo così) e si sente felice e rispettato.L’escalation e il definitivo salto di qualitàL’anno scorso L’Equipe, il quotidiano sportivo francese, decretò, come delusione del 2022, Jannik Sinner. Gli ‘analisti’ transalpini non capirono la portata della rivoluzione tecnica, e comunque Sinner il 2022 lo ha chiuso come n. 15 del mondo. Il nuovo lavoro, tecnico, fisico, tattico e mentale, è diventato palese a tutti a Wimbledon, dove l’altoatesino ha raggiunto la semifinale. «Abbiamo iniziato a conoscere molto meglio l’avversario, un punto su cui, sicuramente tutti noi abbiamo investito molto» ha spiegato Sinner, rivelando anche di più. «All’inizio è stato difficile per me capire, perché ragionavo solo con il mio piano di gioco, ma non con quello del mio avversario. Invece tante partite si vincono guardando solo dall’altra parte del campo, nel senso che puoi prendere la forza così. È una sfida mentale, tipo un gioco di scacchi, e a me per questo il tennis piace tanto. L’ho scelto per questa ragione», ripensando, inconsciamente, al giorno in cui lo preferì allo sci. Ma il clan – Vagnozzi, Cahill, Ferrara, Naldi – ha lavorato anche su altro, sul fisico. Potenziandolo e modificando anche certi gesti tecnici, perfino il suono dell’impatto tra pallina e racchetta. Ma ha salvato la morbidezza del gesto del polso, soprattutto in fase di accelerazione. Anche il footwork, il movimento dei piedi, è rimasto intatto, la leggerezza e la rapidità con cui incontra la palla, inclinando il peso: quasi come se fosse su una pista da sci. Tutto grazie alla sua attitudine, concentrazione e intensità. E poi l’ultima gemma, l’istinto.Il personaggio Sinner«Tu non sei umano» gli dice nel 2021 il kazako (naturalizzato) Alexander Bublik a Miami, dopo essere stato sconfitto nei quarti. L’australiano Nick Kyrgios, via tweet, ammette di non aver mai giocato con qualcuno che colpisse la palla così forte. Non lascia indifferenti, questo ragazzo: c’è qualcosa di magnetico in lui, sebbene non faccia nulla per mettersi al centro dell’attenzione. Sarà perché è aggressivo senza avere la faccia cattiva, perché tira forte senza che nessuno se l’aspetti da uno alto e mingherlino, perché ha il viso del bravo ragazzo acqua e sapone senza però per questo sembrare un nerd imbranato. Piace, è sempre piaciuto a tutti sin dall’inizio. Si è sempre parlato di Sinner mania. Le uniche critiche ha dovuto incassarle per il no ai Giochi Olimpici di Tokyo e per un recente no alla Coppa Davis. E lui? “Non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Il verso dantesco è diventato la base del suo stile di vita. «Lo criticano? Non fa una piega: torna in campo e vince» ha sintetizzato Binaghi. L’uomo che, invece di punirlo, ne ha compreso le ragioni tecniche (e infatti Sinner sarà a Malaga con la maglia azzurra per le Finali di Davis). Lo amano anche gli sponsor, e sono fior di aziende. Gucci, per dire, non si muove senza una strategia. E Sinner non entra sul Centrale di Wimbledon con il borsone griffato per caso. Come accaduto in passato per Valentino Rossi, stanno nascendo sempre più gruppi di fan. I Carota Boys sono quelli più appariscenti, colore preso ovviamente dai capelli ramati che saranno per sempre nascosti e intrappolati da un cappellino. «Per forza, sono lunghi e non ho il tempo di andare dal barbiere...». Questo è Jannik Sinner, il ragazzo di poche e accorte parole. «Non sorrido molto, ma mi diverto comunque tanto». Di lui ripetono che è incompiuto, imperfetto, in trasformazione. Viene da dire: meno male. Siamo solo all’inizio di un arco narrativo