Corriere della Sera, 12 novembre 2023
Il flop della tassa sugli extraprofitti
Nell’annus mirabilis dei profitti bancari lo Stato non incasserà neppure un euro aggiuntivo dalla tassazione dei cosiddetti extraprofitti, quella quota di risultato di esercizio degli istituti di credito riconducibile non tanto alla qualità della gestione o al boom della domanda di credito (l’economia è poco più che stagnante) ma all’effetto “meccanico” del poderoso rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Bce e a causa del quale a pagare molto di più per i servizi e per il credito bancario sono stati i cittadini e le imprese.
L’anno d’oro delle banche italiane (e non solo) potrebbe dunque concludersi con 43 miliardi di euro di utili, il 70% in più del risultato, già lusinghiero, ottenuto nel 2022 (25,4 miliardi di euro) e quasi il triplo se confrontati con il quinquennio precedente. Nel solo terzo trimestre del 2023 gli utili generati hanno raggiunto i 16,5 miliardi, un valore superiore dell’80% ai numeri già elevati del terzo trimestre 2022, quando le banche totalizzarono 9,2 miliardi di profitti netti.
A fare i conti in tasca ai nostri istituti di credito è la Fabi, il principale sindacato dei bancari, che approfitta della pioggia di utili per richiamare gli istituti a condividere i profitti con chi li generati. «Le nostre previsioni – spiega il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni – confermano che il settore bancario italiano sta attraversando una fase straordinaria».
La redditività record si accompagna a livelli di liquidità e di patrimonializzazione «ben superiori» a quelli fissati dalla Bce: gli indici di capitale primario delle “big” oscillano tra il 14% e il 17%. Tuttavia, secondo un’analisi della Fondazione Fiba di First Cisl, le prime cinque banche italiane registrano una riduzione degli impieghi del -5,8% rispetto allo stesso periodo del 2022, in controtendenza con i maggiori paesi europei. E se i soci degli istituti festeggeranno la pioggia di utili con un payout medio del 46% e con buy back azionari miliardari (circa una decina di miliardi in totale), lo Stato resterà a secco dopo che tutte – ma proprio tutte – le banche hanno scelto di destinare a riserva la tassa, privando l’erario di un gettito stimato compreso fra i 2,5 e i 3 miliardi.
Nemmeno le banche a capitale prevalentemente pubblico, come Mps o il Mediocredito Centrale, hanno fatto la scelta di pagare l’imposta una tantum sugli extraprofitti del 2023. Se le banche avessero fatto una scelta diversa, dalla sola Intesa Sanpaolo, prima banca italiana, lo Stato avrebbe incassato 828 milioni di euro. Unicredit, seconda banca italiana, per parte sua ha preferito mandare 1,1 miliardi a riserva anziché pagare. E così di seguito tutti gli altri istituti che hanno preferito mandare a riserva un importo pari a 2,5 volte l’ammontare della tassa piuttosto che versare l’imposta al fisco, opzione legittima in base al testo di legge. Annunciata con grande clamore mediatico dai vertici del governo guidato da Giorgia Meloni il 7 agosto scorso, la tassa sugli extraprofitti bancari «una misura di equità sociale» la aveva definita il vicepremier Matteo Salvini si è dunque risolta in un flop. Bisogna tuttavia ricordare che questo tipo di imposizione “una tantum” non ha mai goduto dei favori delle autorità monetarie di Francoforte. Ancora il 7 novembre scorso il presidente del consiglio di vigilanza della Bce Andrea Enria, nel criticare questo tipo di imposta, aveva sottolineato che «l’extratassa cristallizza il fatto che quando le banche realizzano un profitto interviene qualcuno che glielo toglie, e questo non va a vantaggio delle banche europee».