Corriere della Sera, 12 novembre 2023
Rivalutiamo gli aiuti di stato, però avendo una visione
Scriveva John Maynard Keynes: «Se i fatti cambiano, ne prendo atto e cambio idea». Due sono le novità che oggi ci obbligano a ripensare la politica industriale e, almeno nel mio caso, a cambiare opinione, abbandonando l’idea, che ho spesso espresso, che un ministro dell’Industria non serve perché per disegnare una buona politica industriale basta una buona Autorità antitrust che garantisca condizioni di concorrenza sui mercati. Purché i mercati non siano influenzati da fattori esterni che ne modificano i comportamenti. La prima novità riguarda il ruolo della Cina che ormai impedisce alle organizzazioni internazionali preposte alla concorrenza e al libero mercato di funzionare. Nei decenni recenti, ad esempio, Pechino è abilmente entrata in Africa concedendo prestiti a Paesi del continente che mai saranno in grado di ripagarli. Quando questi prestiti arrivano a scadenza la Cina non ne chiede il rimborso, ma chiede contro-partite commerciali o politiche: una miniera di terre rare, una commessa per la fornitura di armi, un porto strategico cruciale per le navi commerciali cinesi. Anni fa, durante la crisi greca, Pechino «acquistò» il porto del Pireo, più recentemente ha cercato di «acquistare», finora senza riuscirci, il porto di Trieste. È evidente che con la Cina in campo la concorrenza non basta, anche perché Pechino non partecipa al Club di Parigi, che è il tavolo intorno al quale i Paesi creditori si accordano per risolvere le crisi di debito.
A d esempio, la recente ristrutturazione del debito dello Sri Lanka verso i Paesi del Club di Parigi si basa su un impegno non scritto: che lo Sri Lanka non conceda alla Cina condizioni migliori di quelle che ha concesso ai Paesi del Club, un impegno basato solo sulla buona volontà. Gli interventi americani, e oggi anche europei, che vietano il commercio con la Cina di alcuni prodotti, soprattutto contenenti tecnologia digitale, hanno anche questa (comprensibile) motivazione.
La seconda novità è l’Inflation Reduction Act (Ira), la legge con la quale l’amministrazione Biden sta distribuendo oltre 500 miliardi di dollari di sussidi, in parte per compensare le aziende basate negli Stati Uniti a fronte del parziale divieto di commerciare con la Cina, in parte per consentire loro di sopportare i costi della transizione verde.
Una simile legge in Europa non sarebbe possibile perché si scontrerebbe contro il divieto di «aiuti di Stato» previsto dai Trattati dell’Ue. Un divieto, gli aiuti di Stato, che deriva da un assunto giusto: l’innovazione, la produttività, si sviluppano se le imprese sono spinte ad innovare – nuovi prodotti, nuovi modi di produzione, etc. – dall’incalzare della concorrenza. È raro che contributi pubblici distribuiti gratuitamente abbiano creato innovazione.
Su questo in verità c’è una grande discussione: la professoressa Mariana Mazzucato, che insegna all’University College di Londra, pensa ad esempio che senza la ricerca militare finanziata dagli Stati, e soprattutto dagli Usa, durante la Seconda guerra mondiale, oggi non avremmo né internet, né l’iphone. È un’ipotesi. Ma ci sono contro-esempi importanti. Alcuni dei rari esperimenti di successo nel creare energia utilizzando tecnologie nucleari pulite (cioè senza emissione di scorie radioattive) sono nati in start-up californiane finanziate esclusivamente da investitori privati. Da trent’anni l’Ue, insieme a Cina, India e altri Stati, finanzia Iter, un progetto pubblico di fusione pulita. Finora è costato ai contribuenti di questi Paesi oltre 30 miliardi di euro, ma i risultati sono in ritardo di almeno una decina d’anni rispetto a quelli di quelle start-up californiane.
Il tempo dei dibattiti teorici però è passato. Le domande oggi sono più concrete e più urgenti. Consentiamo il commercio con la Cina di apparecchiature digitali che Pechino potrebbe usare per controllare installazioni militari o di comunicazione europee e americane? E se non consentiamo alle nostre imprese di vendere i loro prodotti ai cinesi, come evitare che l’innovazione in queste aziende si fermi, se non consentendo agli Stati di finanziarla, come hanno deciso di fare gli americani? Accettiamo che imprese europee si trasferiscano negli Stati Uniti per avere accesso ai fondi dell’Ira, come alcune stanno pensando di fare? E se gli Usa finanziano con fiumi di fondi pubblici la transizione verde, che facciamo? La abbandoniamo, torniamo al carbone, come sta facendo la Germania? Questo caso specifico lo si può affrontare con la vendita dei «diritti a inquinare», un’idea europea che funziona, ma non sempre ci sono soluzioni altrettanto semplici.
Se in Europa cancelliamo il divieto di aiuti di Stato, si apre un problema: governi, come quello tedesco, che hanno poco debito, possono facilmente indebitarsi per sussidiare le proprie imprese. Ma che ne sarebbe dell’Italia e della Francia? Non è un caso che uno dei Paesi europei più preoccupati da un «liberi tutti» sugli aiuti di Stato sia l’Olanda, un Paese piccolo con tante imprese grandi: difficilmente il governo olandese potrebbe emettere una quantità di debito analoga a quella che Biden ha emesso per aiutare le aziende americane.
Anche qui una soluzione ci sarebbe ed anche relativamente semplice. Il programma Next Generation Eu (di cui il Pnrr è parte) ha rotto un tabù consentendo che alcuni investimenti pubblici potessero essere finanziati con debito europeo comune (eurobond), purché per obiettivi condivisi e sotto la sorveglianza della Commissione europea. Non tutti i Paesi erano d’accordo, molti ancora non lo sono, e solo la gravità della crisi che ci colpì con il Covid li convinse.
I motivi che oggi suggeriscono di emettere debito comune non si limitano alla Cina e alla transizione verde. Prima o poi comincerà la ricostruzione dell’Ucraina distrutta dai russi, un compito che nella divisione delle responsabilità con gli Stati Uniti spetterà in gran parte all’Ue. Saremo anche costretti ad aumentare il bilancio della difesa, e anche qui sarebbe una follia se ciascun Paese continuasse a fare da solo, con il risultato, come accade oggi, di avere tre o quattro aerei da caccia diversi, ciascuno con il suo meccanismo d’arma. Tutte ragioni importanti per accelerare l’integrazione, almeno finanziaria, dell’Unione – come da tempo ripete, l’ultima volta la settimana scorsa, Mario Draghi.
È comprensibile che il dibattito in Italia oggi sia tutto sulla legge di Bilancio e che persino sul nuovo patto di Stabilità si manifestino pericolose distrazioni. La legge di Bilancio arriverà in Parlamento nelle prossime settimane ed è normale che sia al centro dell’attenzione perché è quella legge che distribuirà le poche risorse disponibili per famiglie e imprese. Ma è una legge il cui orizzonte non va al di là di un anno e commetteremmo un errore a pensare solo in termini di brevissimo termine, di anno in anno appunto. Le nuove regole che stiamo negoziando con gli altri Paesi dell’Ue varranno per almeno un ventennio. Serve a poco battersi per regole che ci diano più flessibilità fiscale se non abbiamo in mente un percorso. Se non inseriamo le nostre scelte in quelle più ampie dell’Unione riuscendo a orientarle. Ma per farlo bisogna sapere dove si vuole andare. Soprattutto quando i fatti cambiano è necessaria chiarezza di visione.