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 2023  novembre 11 Sabato calendario

L’ARCA DI NOHA – L’EX TENNISTA FRANCESE, YANNICK NOAH, SI RACCONTA NELL’AUTOBIOGRAFIA “1983”: “LA MAGGIOR PARTE DEI FRANCESI MI GIUDICA NERO, MA QUANDO VINCEVO DIVENTAVO FRANCESE E BASTA. SE PERDEVO O COMMETTEVO QUALCHE SCEMENZA, D'IMPROVVISO TORNAVO UN NERO” – “IN CAMERUN, DA BAMBINO, VIVEVO QUASI NELLA SAVANA. PRENDEVAMO L'ACQUA AL POZZO” – “OGGI NON SONO NOIOSI I GIOCATORI, MA IL GIOCO: IO SONO SEMPRE STATO UN ATTACCANTE. UNO SCAMBIO CHE DURA PIÙ DI QUARANTA COLPI È DI UNA NOIA MORTALE” – VIDEO -

Yannick Noah si definisce «un cantante di tennis», ed è una delle numerose ragioni per cui vale la pena leggere 1983 (Fandango, con Antoine Benneteau, traduzione di Luca Bondioli), biografia di un anno memorabile e di una vita intera: l'anno è quello del trionfo al Roland Garros (dopo un quarantennio, Yannick resta l'ultimo francese a esserci riuscito), ma anche la spiegazione del perché Noah, che oggi ha 63 anni, sia stato più di un atleta, più di un artista, più di un simbolo sociale, e questa è appunto la sua vita intera. Yannick, vorremmo cominciare da un padre che corre in campo ad abbracciare il figlio.

«Accadde un istante dopo l'ultimo colpo della finale parigina dell'83, cioè l'errore di Mats Wilander. Papà si lanciò a razzo tra le mie braccia, e io ho avuto il privilegio di potergli dire "ti voglio bene" davanti a 15 mila persone. Per me l'emozione è il centro di tutto, il resto non m'interessa. La performance tecnica non mi riguarda, anzi mi annoia. Della mia carriera non ricordo nessun colpo speciale, ma le emozioni sì» […]

A proposito di Wilander, lo sconfitto. Che cosa rappresenta per lei? «È il mio migliore amico. Gli amici sono la ricchezza che mi ha lasciato lo sport».

Nel libro si narra la storia dell'artista contro le macchine. Il tennista rock contro i computer. Lei è ancora così? «Beh, lo spero! Credo di essere stato un tennista inconsciamente artistico e ho cercato di trasmettere ottimismo, colore e sorrisi al di là dello sport. Mi auguro di avere portato un po' di questa luce. L'artista deve proporre un altro sguardo, una diversa soluzione alle cose. Dev'essere libero di spingersi oltre le regole, al di là del risultato e del pregiudizio» […]

Forse, lei è l'ultimo tennista ad avere vinto a Parigi con la volée. «Ah, credo proprio di sì. Oggi non sono noiosi i giocatori, ma il gioco: io sono sempre stato un attaccante. Uno scambio che dura più di quaranta colpi è di una noia mortale. Negli ultimi quindici anni il tennis ha avuto Federer, Nadal e Djokovic, tutti gli altri sono stati invisibili. Qualcuno che non fosse uno dei tre poteva, al massimo, sperare in un quarto di finale o in una semifinale dello Slam. Lo trovo parecchio monotono».

Nel suo libro emerge con prepotenza la figura di Arthur Ashe, quasi un padre putativo. Cos'ha rappresentato per lei questo grande campione? «Mi regalò la prima racchetta da tennis, quand'ero bambino e lui venne a esibirsi in Camerun dove ho vissuto fino ai sette anni, quasi nella savana. Prendevamo l'acqua al pozzo. Venne e mi vide, mi parlò, mi incoraggiò, mi portò in Francia a giocare e mi insegnò che tutto è possibile e nessun sogno è troppo grande. Mi ha anche mostrato quanto un campione sportivo possa essere importante per un bambino, quale luce rappresenti. Arthur Ashe lottò contro il razzismo e l'apartheid e mi ha indicato la strada. Era e resta il mio eroe del tutto umano. Al funerale ho portato la sua bara e penso a lui ogni giorno, anche adesso che ho più di sessant'anni».

Lei ha scritto: «A volte sono caffè, a volte sono latte, a volte sono caffelatte e a volte né l'uno né l'altro». Che cosa significa? «Mio padre era nero, mia madre bianca. Io faccio parte della prima generazione meticcia, esprimo una cultura africana e una cultura europea. L'infanzia l'ho trascorsa in Africa, poi ho vissuto gran parte del mio tempo tra Europa e Stati Uniti. Dunque, sono nero e sono bianco. Ma accadono cose curiose. La maggior parte dei francesi mi giudica nero, però quando vincevo diventavo francese e basta. Invece, se perdevo o se commettevo qualche scemenza, ecco che d'improvviso ritornavo un nero. Invece in Africa mi percepiscono metà bianco e metà nero, qualunque cosa faccia».

[…]

Alla morte di suo padre, lei è diventato capo tribù a Etoudi, in Camerun, dove attualmente vive per la maggior parte del tempo. Perché? «È la nostra tradizione e non ero pronto, ho dovuto imparare. Una grande avventura, una magnifica esperienza. Mi sono connesso alle mie profonde radici africane, che non conoscevo, anche con l'aiuto della lingua ewondo. Nel villaggio mi occupo della salute, dell'istruzione e dell'attività sportiva di cinquecento bambini, li facciamo giocare a basket e a tennis, praticano nuoto e arti marziali. Mi sento finalmente al centro di questa cultura che mi appartiene e che non conoscevo davvero. Adesso posso dire: questo sono io».