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 2023  novembre 12 Domenica calendario

Le cento domeniche dei truffati dalle banche


«Negli ultimi dieci anni, decine di miliardi di euro sono andati in fumo nei crac bancari. Pochi privilegiati sono riusciti a mettere al riparo i loro soldi. Centinaia di migliaia di persone non ci sono riuscite. Questo film è dedicato a loro». Antonio Riva, l’operaio in pensione protagonista di Cento domeniche, le rappresenta tutte. È uno e centomila. Condensa le storie di quei risparmiatori che fra truffe e silenzi hanno visto vaporizzare i risparmi di una vita. La didascalia chiude la sua tragica storia portata sullo schermo da Antonio Albanese nel suo quinto film da regista che, presentato alla Festa del Cinema di Roma, il 23 novembre arriva nelle sale per Vision Distribution: «L’ho girato per non dimenticare, perché quello che è successo non accada più».
Per raccontare un dramma che, precisa, «ha coinvolto tutto il Paese, da nord a sud», Albanese si è molto documentato e affidato a consulenti. Tra loro Emilia Laugelli, psicologa e psicoterapeuta, responsabile dell’unità operativa di Psicologia clinica ospedaliera dell’ospedale Alto Vicentino, che nel 2016 con il servizio inOltre della regione ha assistito le vittime dei crac di Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza. Dopo il film, regista e psicologa si rivedono su Zoom con «la Lettura».

Che cosa l’ha spinta a girare «Cento domeniche»?
ANTONIO ALBANESE — Il desiderio di fare questo film è nato due anni fa, ascoltando un’intervista tv a una vittima del crac bancario. Cinquantanovenne come me adesso, prepensionato con questa vergona sulle spalle. Mi sono rivisto in lui perché anch’io vengo da quel mondo, ho fatto l’operaio dai 15 ai 22 anni. Era un uomo pieno di dignità, non voleva manifestare la sua disperazione e la vergogna che provava. Questa dignità così importante mi ha incuriosito. Trattiamo il mondo operaio parlando di ultimi, ma sono i primi, perché sostengono il Paese. Mi sono detto: ma come mai questa dignità non viene esaltata? Così ho iniziato una lunga ricerca. Ho letto parecchi libri, indagini. Ma non mi è bastato perché ho bisogno di entrare, diventare la persona che interpreto. Così ho incontrato Marino Smiderle, ora direttore del Giornale di Vicenza, grande conoscitore della vicenda veneta, che ha iniziato a raccontarmi storie vere di umanità disperse. È stato lui a mettermi in contatto con Emilia. Gli incontri con lei hanno dato a me e a Piero Guerrera (insieme firmiamo soggetto e sceneggiatura), il la per rappresentare questo dramma con onestà e per sviluppare un’atmosfera ancora più vera, nel rispetto di un tema così delicato.
EMILIA LAUGELLI — Per più di dieci anni, fino a settembre, sono stata responsabile del servizio inOltre della regione Veneto, voluto dal presidente Luca Zaia nel 2012 in seguito alla crisi economica, per la prevenzione dei suicidi degli imprenditori. Ho formato un team di psicologi in emergenze comunitarie, che è diventato strutturale e ancora oggi risponde a un numero verde tutti i giorni 24 ore su 24. Abbiamo poi affrontato l’emergenza Covid e prima, nel 2016, il crac delle banche venete. Con i «truffati delle banche» il numero verde non bastava. Così ci siamo inventati una nuova modalità. Era come se una colata di gesso improvvisa avesse investito i risparmiatori truffati, si sentivano immobilizzati dal dolore, dal senso di colpa, impauriti. Così, invece di aspettare che venissero da noi, siamo stati noi, psicologi senza ambulatorio, ad andare a cercarli nelle assemblee in cui si riunivano, nelle abitazioni... E accanto a chi offriva consulenza burocratica abbiamo dato assistenza psicologica per spiegare, in incontri individuali ma soprattutto di gruppo, che quello che stavano vivendo era normale. Abbiamo provato a rendere comunitario il loro dolore, in modo che non si sentissero persi. È stato un trauma che ha travolto migliaia di persone, intere comunità. Un suicidio di un piccolo azionista in provincia di Vicenza ha innestato un movimento comunitario incredibile. Antonio ha colto tutto benissimo, immedesimandosi nel ruolo di Riva. Ne è venuto fuori un capolavoro: dal punto di vista psicologico ha saputo mostrare quello che è realmente accaduto.

L’Antonio Riva interpretato da Albanese in Cento domeniche ha fatto il tornitore in un cantiere navale per tutta la vita, dai 15 anni. Ora che è in pensione gioca a bocce con gli amici, si prende cura della madre anziana, incontra l’amante, fa ancora qualche turno per aiutare vecchi e nuovi operai. La gioia più grande arriva con l’annucio del matrimonio della figlia, che lui, orgoglioso, si offre di pagare: «Tocca al padre della sposa». Risparmia da sempre per questo: tra mille sacrifici, l’incentivo per il prepensionamento (di lavoro non ce n’era più tanto o forse lui, per anzianità, costava troppo) e Tfr, è riuscito a mettere da parte una bella cifra: 80-85 mila euro. Ma alla banca del paese, quella a cui anche suo padre si era affidato, il nuovo direttore (non era appena cambiato?) gli parla di un investimento che Antonio non ricorda di aver sottoscritto. Quindi il consiglio di non toccare quei soldi: le azioni viaggiano a gonfie vele, meglio prendere un prestito... Antonio si fida. Ma così inizia quello che Gian Antonio Stella ha definito, sul «Corriere» del 26 ottobre scorso, «il calvario di un uomo gentile e perbene che giorno dopo giorno vede tutta la sua vita andare in pezzi. Stritolata da una catena di montaggio di meccanica ferocia».
ANTONIO ALBANESE — A livello giornalistico queste vicende sono state molto seguite, ma a livello filmico e attoriale, nessuno aveva mai captato, sentito, osservato il dramma di queste persone, le conseguenze dei crac. Per onorarle, mi sono calato nel ruolo, ho cercato di avvicinarmi il più possibile per mostrare emotivamente quello che hanno vissuto. E per questo ho voluto girare nei paesaggi e nel territorio che conosco, dove sono nato, dove ho iniziato a fare il lavoro che faccio ora, ma dove ho fatto anche l’operaio. Tra facce vere, in un ambiente che conosco, in cui potevo avere maggiore libertà di muovermi con umanità, sempre nel rispetto del tema.
Ha girato a Olginate, località in provincia di Lecco dove è nato nel 1964, ma nel film non specifica dove si svolge la storia.
ANTONIO ALBANESE — Non serve. È l’Italia. È questo nostro Paese meraviglioso sostenuto da 12 milioni di lavoratori, con oltre 5 milioni di operai...
EMILIA LAUGELLI — Hai saputo cogliere benissimo il trauma che ha colpito i risparmiatori. Ne abbiamo seguiti a centinaia sull’orlo di una crisi depressiva grave o del suicidio. Un pensiero che hanno fatto in molti, specie quelli a cui non sono rimaste neppure le briciole. Un’amica che aveva ricevuto in eredità i soldi per comprare un appartamento, dopo il crac sul conto ne aveva solo per una bicicletta. Abbiamo salvato il gestore di un ristorante in extremis, era già sul tetto, ha chiamato e un operatore è corso da lui... Si sono sentiti privati del futuro. Moneta dopo moneta, avevano riempito un salvadanaio che gli garantisse di prendersi cura della famiglia, di avere la certezza di riuscire ad assumere una badante o andare in casa di riposo senza gravare sui figli, pagare un pezzo di mutuo o l’università ai nipoti. C’era chi per risparmiare non aveva mai fatto ferie o non si era mai comprato il vestito nuovo della festa...
ANTONIO ALBANESE — Il titolo Cento domeniche viene dal nome che un amico di mio padre aveva dato alla casa che si era costruito in due anni impiegando tutti i sabati e le domeniche. Conosco chi ha fatto questi sacrifici, persone che hanno sempre lavorato al caldo o al freddo. Tradirle è una vigliaccheria atroce.

EMILIA LAUGELLI — Una donna mi ha raccontato che l’impiegato della banca che le consigliava di comprare azioni, pressato dall’alto, era il figlio di una cara amica: «Era come se portassi i risparmi al casolin, il negozio sotto casa, gestito da uno di famiglia». È stata tradita la fiducia. E quando perdi la fiducia crolla tutto.
ANTONIO ALBANESE — Al di là della perdita economica, che è fondamentale, è proprio una questione di fiducia. Molti chiamavano la banca «il confessionale», come viene detto nel film. Alcuni bancari conoscevano la vita dei clienti più di quanto la conoscessero i loro cari. Il tradimento ha portato a una perdita di fiducia che non si aggiusta. In una scena lo dico a Sandra Ceccarelli, che interpreta la mia ex moglie: «Io faccio il mio lavoro, loro fanno il loro, quindi mi fido».
EMILIA LAUGELLI — Come fai vedere bene nel film in molti hanno firmato le carte delle banche senza capire bene se si trattasse di obbligazioni o azioni, perché si fidavano dei consigli ricevuti. Quando tutto è crollato, l’hanno saputo per caso.
Le reazioni di Antonio Riva sono ricalcate su quelle reali: incredulità; smarrimento e angoscia; vergogna. Schiacciato dal senso di colpa, si isola da tutti. Anche dall’amata figlia.
EMILIA LAUGELLI — Il personaggio concentra benissimo la quota d’ansia provata da queste persone, scaturita in attacchi di panico, inappetenza, perdita del sonno, nel vagare con gli occhi vuoti in cerca di strategie per uscirne, un rimuginare che non ti lascia vivere. E ti porta anche a evitare gli altri, perché ci si sente responsabili di quanto accaduto.
ANTONIO ALBANESE — Abbiamo cercato di concentrare nel tempo di un film (94 minuti, ndr) questo percorso con il suo crescendo, stando molto attenti a dosarlo, cesellando battuta per battuta, ma soprattutto sguardo per sguardo... La cosa che più mi ha colpito, per deformazione attoriale, sono gli sguardi. Quello di Antonio Riva è lo sguardo di un uomo che, in una provincia serena e dignitosa, vive con gioia la propria vita, ma piano piano va verso la disperazione. Questa ascesa l’abbiamo studiata con molta attenzione, con l’aiuto di grandi amici attori, grazie ai racconti che abbiamo cercato per trattare un argomento così delicato.
Per farlo ha scelto la chiave realista, sottolineata anche dalla parca presenza musicale.
ANTONIO ALBANESE — Nella prima parte del film ho scelto di non usare musica perché volevo sentire il suono della provincia, il tornio, i rumori che circondano queste persone da sempre. Poi, con l’aiuto di Giovanni Sollima, nella seconda parte ci siamo fatti a poco a poco accompagnare dal tema musicale che ho fatto ascoltare agli attori prima delle riprese.
Mostra la storia di Antonio Riva in tutta la sua tragicità, senza risparmiare nulla allo spettatore...
ANTONIO ALBANESE — Perché è una storia che va rispettata fino in fondo. Come ha detto Emilia ci sono tantissime storie diverse: Antonio Riva è una sintesi che rappresenta un po’ tutti, la volevo fare con grande verità e rispetto. Per questo non ho fatto sconti... E ho dedicato il film a tutte le persone colpite dai crac. Ma un po’ anche a noi, perché poteva capitare a chiunque e non dobbiamo dimenticare.
EMILIA LAUGELLI — È stato un dramma enorme che in Veneto continua ad avere riverbero. In alcuni comuni di 25 o 30 mila abitanti il 70 per cento aveva risparmi in quelle banche. All’epoca se ne è parlato tanto. Sono poi arrivati i risarcimenti del 30 per cento – ora si dovrebbe aggiungere altro —, ma anche se fossero stati totali non avrebbero restituito la serenità. Un trauma così grande rimane nel puzzle della tua vita. Dopo non sei più lo stesso.
ANTONIO ALBANESE — Esatto! Brava Emilia, a questo tengo molto: non è solo una questione economica, ma di dignità! Di vergogna, umiliazione! «Il mio dolore non si aggiusta», dice Antonio Riva nel film. È proprio così.
EMILIA LAUGELLI — I crac hanno intrecciato tante storie, anche quelle degli impiegati delle banche.
Nel film sono rappresentati da Federico, giovane bancario che non riesce a sopportare il peso dell’ipocrisia.
EMILIA LAUGELLI — Alcuni si sono licenziati e hanno provato ad allertare i clienti. Altri hanno vissuto fino alla fine il dramma di dover vendere azioni facendole passare per qualcosa di più semplice, con enorme senso di colpa, per non perdere il posto di lavoro.
Nei vostri interventi avete spesso lavorato sul gruppo, diceva, sul senso di comunità.
EMILIA LAUGELLI — Gli incontri, le manifestazioni fuori dai tribunali e dalle banche sono stati anche catartici.
Anche il film lo sarà?
EMILIA LAUGELLI — Da un lato riaprirà una ferita, ma dall’altro permetterà di parlarne ancora in modo comunitario. Trovare questo specchio sarà terapeutico. Mi auguro che possa avere un successo enorme come forma di riscatto.
ANTONIO ALBANESE — Lo spero. Verrò a Vicenza e Treviso. Non vedo l’ora. Sono molto innamorato di questo progetto, lo voglio coccolare e abbracciare il pubblico che guarderà il film. Sarò molto emozionato.
EMILIA LAUGELLI — Sarà anche molto bello.
Il cinema non deve quindi scordare il suo ruolo sociale?
ANTONIO ALBANESE — Il tema del lavoro per me è sempre stato in prima fila. Nel 1997 con Michele Serra ho scritto Giù al Nord; ho recitato in film come quello di Gianni Amelio dove facevo L’intrepido (il «rimpiazzo» di lavoratori di qualsiasi tipo, ndr)... Il mio desiderio è che Cento domeniche serva come documento per non dimenticare. Perché è dal 1893 con la Banca Romana che ciclicamente si ripetono queste ingiustizie. Comunque io difendo il sistema delle banche. Pur amando profondamente Bertolt Brecht – il mio primo spettacolo è stato Tamburi nella notte — non sono d’accordo quando dice che rapinare o fondare una banca sono la stessa cosa. È la colpa di certi bulimici prepotenti, ne bastano pochi, che poi infettano un po’ tutto il sistema.
EMILIA LAUGELLI — Credo che Grazie ragazzi (film di Riccardo Milani in cui Albanese è un attore che tiene un corso teatrale in un carcere, ndr) ti abbia portato verso questo film. Vedo una continuità nell’attenzione a temi sociali, di vita vera.
ANTONIO ALBANESE — Io l’ho fatto anche in altre forme. Qualunquemente di Cetto La Qualunque è uno dei miei lavori più drammatici. È questione di stile. Io amo cambiare modalità, ritmi, colori, perché da spettatore mi annoia guardare sempre lo stesso attore con due espressioni, con il cappello e senza il cappello. Un tema così delicato lo volevo profondamente rispettare. Sono onorato di avere incontrato chi come te, Emilia, è riuscito a sostenere persone distrutte.