La Lettura, 12 novembre 2023
Sulle missioni
Il termine missione sembra sopravvivere oggi solo nella forma della missione aziendale cui si votano le imprese. Al Centro di cultura e animazione missionaria del Pontificio istituto delle missioni estere (Pime), invece, si elabora e si pratica un’ alternativa. Nello storico edificio milanese di via Monte Rosa, e nei 19 Paesi in cui operano i 425 missionari del Pime, la missione cristiana si rinnova per rispondere alle domande del nostro tempo. Dal 1° settembre Gianni Criveller ha assunto la direzione del Centro, che ospiterà vari eventi di BookCity, e coordina le sue molteplici imprese culturali. Sessantadue anni, veneto d’origine, Criveller ha vissuto e insegnato a Hong Kong, Taiwan, Macao e Cina popolare dal 1991 al 2017.
Dopo quasi trent’anni in Cina, lei è tornato a Milano nel 2017.
«Per la verità sono poi tornato più volte a Hong Kong. Continuo ad insegnare lì e a Macao».
Cosa porta con sé dalla Cina?
«La passione per la vicenda della democrazia e della libertà, in particolare a Hong Kong. I movimenti del 2014 e del 2019 purtroppo sono finiti nel peggiore dei modi. Ho partecipato ai movimenti. Molti amici sono stati protagonisti. Nel 2019 sono stato due volte a Hong Kong prima che iniziasse la protesta. E poi ho partecipato alla manifestazione dell’8 dicembre. Porto con me la coscienza di questo movimento popolare».
I cattolici vi partecipano?
«Sì. Non che questo renda più prezioso il movimento. Però va considerato che nonostante siano una minoranza – a Hong Kong i cristiani sono il 10%, per metà cattolici – hanno una grande consapevolezza del loro ruolo sociale per il bene comune e il destino del proprio popolo. E questo lo hanno acquisito anche grazie all’impegno dei missionari».
Il rischio per chi partecipa al movimento è molto alto.
«Dopo la legge sulla sicurezza nazionale del 1° luglio 2020, abbiamo avuto più di diecimila arresti, un migliaio di persone sono ancora in carcere, anche con condanne significative, persone non violente, gente impegnata in prima fila nei movimenti di base per la democrazia. Quest’anno sono stato due mesi a Hong Kong. Porto con me la coscienza del cammino di questo popolo, di questa gente, di cui si parla troppo poco».
Vale anche per la Cina in generale?
«Sì. In Cina c’è il desiderio di libertà da parte di molte persone, anche se magari non possono esprimerlo».
Non ha paura di denunciare l’oppressione?
«Se tutti stiamo zitti, il potere ha già vinto la sua battaglia senza troppa fatica. Almeno qualcuno deve dire le cose che in coscienza sente di dover dire».
Lei è un prete?
«Sì. Un prete e un missionario. Appartengo al Pontificio istituto delle missioni estere. Per il diritto canonico è una società di vita apostolica».
Fermiamoci sul termine missione. Che significato ha per uno come lei?
«È un termine entrato in profonda crisi nella seconda metà del secolo scorso perché associato al colonialismo e al postcolonialismo. La politica religiosa del governo cinese adotta questa linea di interpretazione».
Ma lei non è d’accordo.
«Ci sono due cose da dire. Anzitutto la missione è stata fonte di progresso. Spesso i leader locali che hanno combattuto il colonialismo e hanno reso indipendenti i loro Paesi hanno studiato nelle scuole cristiane e cattoliche. Mi sento di affermare che la missione è stata un agente di progresso, emancipazione e liberazione, politica, sociale e antropologica, ad esempio per donne e bambine».
La seconda cosa?
«La missione è oggi intesa come il cuore dell’esperienza cristiana. La Chiesa esiste per annunciare il Vangelo, che è un Vangelo di pace, giustizia e liberazione. La missione non ha più un confine geografico. È proprio l’essere della Chiesa. Non è la Chiesa che fa la missione, ma è la missione che viene da Dio che fa la Chiesa. Perché la Chiesa esiste affinché il Vangelo venga annunciato a tutti».
In che senso non esiste più un confine geografico?
«La distinzione tra Paesi cristiani e non cristiani è superata. Dal punto di vista dello sviluppo delle nazioni, ma anche dal punto di vista teologico. Non esistono Paesi cristiani. Personalmente penso che non siano mai esistiti».
È un’affermazione pesante.
«L’Italia non è mai stata cristiana e non c’è bisogno che sia cristiana. Ci sono comunità cristiane, persone che cercano di vivere il Vangelo, ma la nazione… non saprei dire in che senso è cristiana. Una nazione che partecipa alle guerre mondiali, che produce fenomeni di criminalità e li esporta in tutto il mondo, in che senso può dirsi cristiana?».
Che cosa porta nella sua direzione del Centro del Pime?
«Anzitutto me stesso. Non che io valga qualcosa. Valgo meno di niente, lo dico con sincerità. Però porto la mia storia missionaria. Soprattutto di contatto col popolo cinese e dell’Asia orientale e di attenzione per le culture di questi popoli. Poi porto il mio interesse per la teologia. Mi sono formato come teologo. Ho una visione teologica del mondo. La terza cosa è la mia attenzione alla cultura, all’arte, come forme di bellezza».
Dov’è il nesso?
«Il linguaggio con cui Dio ci parla è il linguaggio della bellezza. L’arte, la cultura, la poesia, la letteratura, sono il linguaggio attraverso cui Dio parla alle donne e agli uomini del nostro tempo».
Senza che questi ascoltino, si direbbe.
«Cos’è la guerra, cos’è la violenza se non la distruzione delle cose belle? Che potrebbero essere la nostra realtà quotidiana se l’uomo non ci mettesse in mezzo la sua capacità distruttiva».
Nel suo lavoro sulla bellezza lei si è molto interessato al femminile.
«Sono molto legato ad alcune autrici. Da Antonia Pozzi a Grazia Deledda, Da Edith Stein a Sophie Scholl, da Simone Veil a Etty Hillesum».
Il 18 novembre presso il vostro teatro c’è uno spettacolo dedicato alla poetessa Antonia Pozzi.
«Aveva un gusto intimista, un’attenzione al creato, alla natura, ai sentimenti, agli altri, in un tempo in cui prevaleva il discorso eroico o della ragione. Infatti è rimasta sconosciuta per decenni».
Antonia Pozzi muore suicida nel dicembre 1938.
«Mi sono convinto di questo leggendo le sue poesie, le sue lettere: lei muore nella tragica consapevolezza dell’incombente disastro che si stava abbattendo sull’Europa e sul mondo. È una vittima anticipata della Seconda guerra mondiale. Non si è uccisa perché era depressa. Era una scalatrice, una fotografa, viveva intensamente. È morta disperata per il male del mondo. Lo dice nel biglietto d’addio in cui parla di un’oppressione esercitata sulle vite. Che era l’oppressione del potere. Questa consapevolezza della tragicità del tempo è molto attuale».
Antonia Pozzi si uccide disperata. I giovani di Hong Kong invece resistono.
«Anche a Hong Kong ci sono casi di suicidio, come altrove in Asia orientale. I giovani sono silenziati, molti sono in prigione, molti attendono di essere arrestati. Moltissimi sono fuggiti».
Etty Hillesum, morta ad Auschwitz non ancora trentenne, è un’altra resistente a cui lei si è interessato.
«Hillesum è un’ebrea non praticante, non credente. Davanti alla persecuzione nazista fa un cammino contromano. Mentre il popolo si dispera, si suicida, perde la fede in Dio, lei si rende volontaria, assiste chi va in campo di concentramento e scopre Dio dentro di sé, scopre quanto bella sia la vita. Scrive delle cose molto preziose. Perdona Dio per aver abbandonato il suo popolo. Tu Dio non puoi fare niente per noi. Siamo noi che dobbiamo aiutarti affinché tu non sparisca dal nostro cuore. Solo una donna con una grande fede può parlare così».
Anche il suo Istituto ha avuto dei martiri.
«In tutto 19. Gli ultimi tre nelle Filippine. Li conoscevo tutti e tre. Tullio Favali è stato ucciso nel 1985 da gruppi paramilitari di destra che sostenevano il dittatore Marcos. Salvatore Carzedda aveva iniziato un dialogo con i musulmani nell’isola di Mindanao. Nel 1992 gli estremisti islamici lo hanno ucciso proprio perché dialogava con i musulmani. Fausto Tentorio è morto nel 2011, in sostanza per mano di persone al servizio degli interessi di alcune multinazionali che compravano le terre di indigeni e contadini a quattro soldi per poi sfruttarle. Lui diceva alla gente: non vendete le vostre terre».
Siete sicuri di poter rispondere alla violenza con la bellezza?
«Dio continua a parlarci. In forme che danno bellezza alla nostra vita. Contro la violenza della guerra, dei rapporti personali, sulla natura. La bellezza ci restituisce il fatto che la nostra vita è bella e vale la pena viverla. Musica, teatro, spettacolo non sono una distrazione. Fanno parte della nostra missione».