La Lettura, 12 novembre 2023
Parla Pamuk
Studente di architettura, poi pittore e calligrafo, a ventidue anni, Pamuk decide di «uccidere» le proprie aspirazioni da artista. Chiude il suo studio. Abbandona i pennelli. Sceglie, perciò, di incanalare la propria energia creativa nella letteratura. Anche se non riuscirà a liberarsi del tutto da quelle passioni giovanili. Negli anni, Pamuk ha continuato a visitare assiduamente musei e mostre, studiando soprattutto i movimenti d’avanguardia (espressionismo, dadaismo, surrealismo) e l’opera di alcuni artisti (Kandinskij, Klee, Duchamp, Ernst, Dalí, Cornell, Twombly, Kiefer, Rauschenberg, Boltanski, Kabakov, Fischl, Hirst).
L’amore per l’arte riaffiora negli scritti critici (in parte radunati in Altri colori) e anche nei titoli «cromatici» di alcuni suoi romanzi (Il castello bianco, Il mio nome è rosso, Il libro nero, La donna dai capelli rossi), finzioni letterarie di natura sostanzialmente visiva, che rivelano un’ampia e raffinata conoscenza storico-artistica. Spesso, Pamuk vi incastona descrizioni dettagliate, che non fanno da sfondi né da ornamenti, ma sono funzionali alle strutture narrative e puntellano saldamente le trame. «Quando scrivo un libro, parola dopo parola (...), il primo passo è sempre la composizione di un quadro (...) nella mia mente. Sono consapevole che il mio compito immediato è chiarire e mettere a fuoco tale immagine mentale», ha ricordato Pamuk. Il quale, in anni recenti, ha avvertito il desiderio di tornare a esplorare in prima persona i territori della pratica artistica. Si pensi a quell’opera-mondo che è il Museo dell’Innocenza di Istanbul; alla collaborazione con la videoartista Grazia Toderi (al Mart di Rovereto nel 2017); al suo lavoro fotografico (in parte raccolto nell’edizione illustrata di Istanbul e nel volume Balkon); e ai quadri caratterizzati da un approccio tradizionale realizzati in privato dal 2007.
Occorre risalire a questo backstage per accostarci a Ricordi di montagne lontane, in uscita da Einaudi. Un libro difficile da catalogare. Certo, un diario, che conduce nell’officina del fare. Ma, soprattutto, un esercizio iconotestuale, nel quale parole e immagini si lambiscono, si combinano, si intrecciano, si sovrappongono, scoprendo affinità segrete. La pittura si fa scrittura e la scrittura si fa pittura, fino a spazializzarsi. Di analoghi sconfinamenti si era fatto acuto interprete Roland Barthes: «Nulla separa la scrittura (che si ritiene comunicativa) dalla pittura (che si ritiene espressiva)», poiché «entrambe sono fatte dello stesso tessuto, che forse è semplicemente, come nelle cosmogonie più moderne, la velocità».
Da oltre dieci anni, Pamuk ha cominciato a riempire quotidianamente piccoli taccuini. Iconografie accompagnate da annotazioni anch’esse dipinte a mano, dense di rimandi ai manoscritti miniati bizantini. Sui fogli, si inseguono visioni eterogenee. Viaggi. Luoghi: Italia, Stati Uniti, India. E Istanbul, che è come una tela di Penelope, incessantemente disfatta e riannodata. Interrotta dal mare, come Venezia. Dilatata a perdita d’occhio, come qualsiasi megalopoli occidentale. Accarezzata dalle sinuosità delle moschee e dalle spigolosità dei minareti, come tante città arabe. La sua anima è nel mare che la taglia in due; nella sontuosità delle moschee, inchiodate in una stasi metafisica; ma anche nei suoni, negli odori, nelle rovine di un impero crollato. E, poi: tanti scorci incontaminati e interiorizzati, contemplati da una finestra o da un aereo. Il mare. Le montagne. Sullo sfondo, la cronaca politica e le tensioni in Turchia. Infine, il cantiere aperto del Museo dell’Innocenza. E le ritualità nascoste dietro ogni romanzo: il laboratorio dello scrittore.
Una selezione di questo archivio di drammaturgie minime (12 taccuini) verrà esposta in una mostra, curata da Edoardo Pepino, ospitata nella galleria del Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci a Fontanellato (dal 18 novembre al 17 marzo). Si tratta di capricciose ed elusive ipotesi per custodire brandelli di presente nell’archivio della memoria, non senza abbandoni onirici e momenti melanconici. Senza enunciarlo, questo scartafaccio potrebbe essere riattraversato come un dispositivo, in cui il tempo viene trattato poeticamente, come materia da rimodulare a oltranza.
Pamuk ha scelto alcune pagine dai suoi quaderni, che ha trasformato in fotogrammi isolati, ricorrendo a una sorta di montaggio delle attrazioni, incurante delle cronologie, dei ponti, delle connessioni immediate. «Penso di traverso per tutto il giorno», scrive Pamuk. Che abbiamo incontrato, via Zoom, qualche giorno prima del suo viaggio in Italia, dove ieri ha tenuto una lezione in apertura della nuova edizione di BookCity Milano.
Nelle Norton Lectures tenute nel 2009-2010 presso l’Università di Harvard (poi raccolte in Romanzieri ingenui e sentimentali), lei propone una sottile distinzione tra scrittori verbali e scrittori visivi. I primi «ci coinvolgono con le parole, con l’andamento del dialogo, con i paradossi o i pensieri che il narratore sta esplorando»; gli altri «ci impressionano con immagini indelebili, visioni, paesaggi e oggetti». Nonostante queste differenze, scrivere un romanzo, sottolinea, significa dare voce a una dimensione intimamente pittorica; pre-vedere «un mondo che esiste solo come dipinto prima di prendere eventualmente forma»; infine, evocare icone, situazioni e particolari nitidi nella mente del lettore.
Quando gli chiedevano di spiegare l’origine dei suoi libri, Faulkner rispondeva: «Prima c’è sempre un’immagine». Da qui è nato L’urlo e il furore. Anch’io inizio i romanzi con un’immagine, che non so bene da dove provenga. Penso a lungo a questo affioramento improvviso. Il racconto comincia da questa fonte che, poi, prende il sopravvento ed è fagocitata. Per me, scrivere romanzi è un modo per comunicare un’epifania attraverso le parole, nel lettore, il quale, a sua volta, potrà visualizzare quell’epifania nella sua mente. È una sorta di ekphra sis.
Dopo avere rinunciato, poco più che ventenne, alle sue aspirazioni da pittore, è stato vittima di una sorta di frustrazione, come ha detto in un dialogo con Anselm Kiefer, di cui ha elogiato «l’arte eccezionale», le vigorose pennellate, la potenza fisica, la tensione epica, la sapienza nel combinare parole e figurazioni quasi-astratte in una trama unica. In quell’occasione, lei ha parlato di uno strano gioco di vite parallele e opposte. Kiefer: un pittore che desiderava diventare scrittore. Lei: uno scrittore che desiderava diventare pittore.
La sua domanda è un’occasione per parlare della mia fascinazione per Anselm, che è anche un amico. E della sua influenza su di me. Lo ritengo uno straordinario paesaggista. Condividiamo le stesse ambizioni sbagliate. Lui è un grande pittore, che inizialmente voleva diventare uno scrittore. Io sono uno scrittore (modesto), che inizialmente voleva essere un (grande) pittore. Spesso, nelle sue opere, Kiefer incastona alcune frasi, ricordandoci che parole e immagini, secoli fa, non erano poi lontane e distanti come ora. Un ricordo della mia giovinezza. Nella mia scuola, a Istanbul, c’era un insegnante che ammirava il mio talento in pittura, ma mi sgridava perché io avevo la stessa tendenza a scrivere nei miei dipinti. Non di rado mi sembra che, per un artista, la gioia maggiore possa venire proprio dalla possibilità di scrivere nei suoi quadri. E viceversa: per me, una delle più grandi fonti di felicità consiste nella possibilità di inserire qualche disegno nelle mie pagine letterarie.
A differenza di altri scrittori-pittori come Pasolini, Ionesco, Barthes, Berger, Grass e Kundera, dipingere, per lei, non è un divertissement né una curiosità. Esprime, invece, il bisogno di parlare di sé e di confessarsi. Negli anni, la pittura è rimasta sempre un suo riferimento necessario. Come emerge anche dai suoi racconti dedicati ad alcuni tra i maggiori musei del mondo, ispirati al Palomar di Calvino (che sta pubblicando sulla rivista FMR). Potrebbe dire, con una celebre battuta di Apollinaire: «Et moi aussi je suis peintre».
Una volta che diventi famoso come scrittore, ti vergogni di confessare che sei anche un pittore, o almeno che avresti voluto esserlo. A lungo ho dipinto in segreto: quando gli altri ti vedono utilizzare i colori su una tela, tendono a dire subito che sei un romanziere e che inevitabilmente i tuoi quadri non possono essere di qualità. E, quindi, ho nascosto, nascosto, nascosto la mia passione! Forse, anche perché molti vedono la pittura come una carriera. Certo, il mio mestiere è quello del narratore. Ma ho un istinto che non riesco a controllare. Ci sono momenti nella mia vita in cui tutto quello che voglio fare è annotare qualcosa nel mio diario. Ma ce ne sono altri in cui ciò di cui ho bisogno è disegnare. Apro una pagina, ed entra in azione la mia mano. A volte mi sento un po’ depresso, e usare il colore e disegnare mi rallegra. Devo confessarle che dentro di me ci sono sia il desiderio di scrivere che quello di dipingere. Ma c’è una differenza. Quando scrivo, non posso ascoltare la musica: sono concentrato, sono analitico, un po’ tormentato. Quando dipingo, invece, sono gioioso. Inoltre, sono meno cerebrale: coincido con il mio corpo. È per questo che mi piacciono molto il puntinismo e l’espressionismo. Per me, l’arte concettuale non è arte: è composta e pretenziosa. La pittura che mi interessa ha un nesso con la dimensione corporale.
La pittura entra anche nel Museo dell’Innocenza, un’opera totale che raccoglie linguaggi diversi in un’unica e dilatata cornice. Realtà e finzione vi si incontrano, sfumando l’una nell’altra. In bilico tra la tradizione del romanzo ottocentesco europeo (Dickens) e i «contes philosophiques» (Borges), lei conduce in un mondo immaginario, che tuttavia sentiamo come vero: emoziona, induce all’immedesimazione. Ci si imbatte in oggetti reali sopravvissuti a una vicenda letteraria.
Il Museo dell’Innocenza non si limita a esporre quadri o oggetti dentro teche. È un’installazione che svela la mia sensibilità visuale e il mio talento di artista concettuale. Le vetrine sono più importanti di quello che custodiscono. Con il Museo dell’Innocenza ho realizzato il progetto di Borges: qualcosa di immaginario è nelle nostre mani. Migliaia di rose, di mozziconi di sigarette, di oggetti. Il visitatore sa che è tutta finzione ma, poi, si trova davanti tutto quello che credeva essere finzione. Ed è destabilizzante. Ho concepito quest’opera, ma non sappiamo mai esattamente perché facciamo una determinata cosa.
Il Museo dell’Innocenza è destinato a restare incompiuto, come la Sagrada Familia?
La Sagrada Familia mi ha molto influenzato! L’ho visitata diverse volte. Mi interroga quella grandiosità incompiuta, fatta di aspetti piccoli, minuti. Ogni volta che vado a Barcellona vi torno. Gaudí ha incarnato anche il dilemma dell’artista che vuole farsi voce di qualcosa di più ampio, senza essere rappresentativo.
Veniamo ai taccuini, ora.
Grazie a Ricordi di montagne lontane mi sento a mio agio con l’idea di volere essere un pittore. Ora sono uscito dalla clandestinità.
Si tratta di un libro indifferente ai generi. Un diario, una confessione. Un archivio dell’Io, in cui sembra venire meno a un invito che le è stato spesso rivolto («Non pubblicare cose troppo personali»). Quanto conta l’autobiografia nel suo lavoro?
I miei taccuini sono, innanzitutto, quaderni letterari con disegni. Per anni, ho riportato annotazioni e schizzi su piccoli calepins. Poi, mi è stato proposto di farne un volume. I fogli sono raggruppati per temi e per figure, per soggetti e per sentimenti: un motivo pittorico cinese, un soggetto indiano, il paesaggio di Istanbul, l’ossessione per un romanzo. Inoltre, un po’ ovunque, affiorano alcuni sogni della mia vita. Credo che, in queste carte, esista una continuità. Ovunque, ci sono io.
Nel libro-brogliaccio, l’impianto cronologico viene disarticolato. Un modo per smontare e rimontare l’ordine del tempo.
Ho una buona risposta per questa buona domanda! Ho organizzato i materiali seguendo un criterio non cronologico ma tematico. Inoltre, non di rado mi piace intervenire su pagine già annotate. Oggi potrei aprire un quaderno di dieci anni fa e disegnarvi dentro altre fantasticherie. Ho imparato questa tecnica da Henry David Thoreau, un diarista statunitense, sapiente nell’aggiungere nuovi testi a diari già riempiti. Di solito, riportiamo appunti sulle nostre giornate, chiudiamo il nostro diario e su quella pagina non torniamo più. Io, invece, torno sulle mie pagine, con disegni, con icone, con testi.
Sullo sfondo, la sua vita privata, le sue ritualità di romanziere, i suoi incontri, le sue scritture, i suoi viaggi, Istanbul. In che modo queste voci entrano nel suo lavoro?
Questo libro mostra una selezione di quello che mi interessa. La pittura di paesaggio, il ricordare, le giornate quotidiane, qualcuno che è impegnato a scrivere il proprio romanzo. E, poi: la politica, l’insegnamento, i viaggi per promuovere i miei libri. E ancora: le mie visite ai musei, il mio piacere nel disegnare qualcosa senza avere sciolto il mistero di quello che la mia mano vuole fare. Resoconti dei miei stati d’animo.
Il suo riferimento è William Blake, sofisticato poeta, potente pittore e prodigioso incisore, incurante di ogni gerarchia o distinzione tra arte e letteratura, teorico dell’arte come pura attività dello spirito e come conoscenza intuitiva. Lei si ispira alla sua capacità di vedere e di concepire insieme, nella stessa pagina, testi e immagini.
Blake è l’esempio classico di un artista che è riuscito, con successo, a essere un pittore e un poeta. Ci sono molti romanzieri che vogliono dipingere e tanti pittori che vogliono scrivere. Ma Blake è l’unico che sia riuscito a fare entrambe le cose in maniera perfetta, simultaneamente. Sembra che componesse le pagine e i quadri e li cucisse insieme, sulla doppia pagina. Era così talentuoso! Non scriveva prima, per poi elaborare una illustrazione. La sua mente attaccava immagini e testi.
Perché preferisce l’acquerello, tra i generi pittorici il più rapido ma anche il più fragile?
La pittura a olio richiede tanta preparazione: ci sono diversi odori e ci si sporca. Io, invece, penso che l’acquerello sia ideale per chi vuole lavorare in una piccola scala ed è attento alle coincidenze. Inoltre, è comodo realizzarne: servono tanti pastelli-pennelli, matite che si dissolvono con l’acqua. Quando mi invitano da qualche parte, anche solo per una cena, io porto un sacchetto di plastica in cui metto un taccuino, le matite, i pennelli acquerellabili, li posso tirare fuori e posso disegnare. Devo dirle la verità. La maggior parte di questi schizzi è stata eseguita dopo aver bevuto un bicchiere di vino.
Qui abita la principale differenza tra la pittura e la letteratura, che esige tempi lunghi e continui rimaneggiamenti?
Quando scrivo, ritorno continuamente sui testi. Quando dipingo, aggiungo, ricalco. È un processo diverso.
Ricordi di montagne lontane è anche un omaggio al genere della pittura di paesaggio. Lei ricorre sempre alla stessa ritualità. Si mette davanti a frammenti di mondo e li ferma sulla carta.
Prima dell’invenzione della pittura di paesaggio, tutta l’arte era illustrativa. Vi erano piccole decorazioni a corredo dei testi biblici, che occupavano i margini delle pagine. Nei secoli, quello spazio è cresciuto, fino a coprire tutta la pagina. Esito di questa espansione è l’avvento della pittura di paesaggio, che può anche non avere una storia da rappresentare.
Come cambia la sua postura quando ritrae la sua città, Istanbul, rispetto a quando ritrae luoghi che frequenta da visitatore, come Venezia o New York?
È un’ottima domanda! A volte, disegno chinato sul tavolo. Altre volte lo faccio mentre sono in piedi e mi muovo. Ma permane in me una certa timidezza nel dire: «Sono un pittore!».
I suoi sono paesaggi-stati d’animo, in linea con una tradizione delle avanguardie novecentesche.
Anche se è una mia inclinazione naturale, mi annoio nel dipingere paesaggi realistici. Posso farlo solo quando ho storie e drammi delineati chiaramente nella mia mente. Preferisco eseguire paesaggi immaginari. Che, tuttavia, non possono mai essere completamente liberi. Ogni pittore vorrebbe inventare spazi puramente estratti dal sottosuolo della sua fantasia. Se ci riesci, stai sconfiggendo il verismo. Ed è come comporre musica. In Il mio nome è rosso faccio spesso riferimento alla pittura cinese. In quei tratti si leggono molti gesti espressivi, movimenti fatti con le mani. Per me, questa è l’arte nella sua forma più pura. In quel tipo di movimento corporeo, c’è il bisogno non di imitare il mondo ma di pronunciare sé stessi: si cerca qualcosa di profondo dentro sé stessi. Un’avventura che si avvicina al surrealismo.
Nel libro, ricorda che la sua sfida più difficile consiste nel rendere enigmatico un luogo vero, lasciando intuire che esista un altro mondo, nascosto all’interno di quello che abitiamo. Che rapporto esiste tra il visibile e l’altrove?
“Montagne lontane” è un’espressione che, in cinese, definisce una tipologia di pittura di paesaggio. Ma rimanda anche a un’idea romantica. Evoca il posto dei tuoi sogni, dove desideri andare, ma in cui non sei mai stato. Allude all’idea che ci sia un luogo verso cui puoi dirigerti. I pellegrini vanno verso la montagna lontana, per scoprire cosa ci sia dall’altro lato. Il libro suggerisce che, dall’altro lato, vi sia un paradiso dove le immagini e le parole sono una cosa sola. Questo è il sogno che il mio libro accarezza. Ma non voglio spiegare troppo.
Dipingere paesaggi, scrive, è «un invito a vivere e a sognare». Siamo dinanzi a un esercizio di piacere quasi fisico, di felicità: la mano corre libera, senza rendersi conto di quel che fa.
Ammirare i quadri dei grandi pittori e visitare i musei accresce il desiderio di dipingere. È un desiderio che ha molti punti di contatto con il piacere sessuale, senza preavviso, senza controllo.
Mettere in scena un paesaggio è anche un’ipotesi per abbandonare la memoria e per vivere il presente come se fosse passato? «Si comincia a dipingere quando si vede ciò che si è dimenticato», osserva.
Quando scrivi romanzi, la cosa migliore è muovere dai tuoi ricordi, come se fossero ricordi di altri. Narra quello che stai vivendo ora in un modo che consenta a chi sta leggendo di viverlo come se fosse accaduto tanti anni fa. Ad esempio, ne Il mio nome è rosso ho parlato della mia infanzia con mia madre e mio fratello, quando mio padre era assente. Ma ho trasformato questa vicenda in un romanzo ambientato nella Turchia della fine del Cinquecento. La bellezza delle opere d’arte è qui: spesso, attingono a qualcosa di profondamente vero ma trascendono la realtà, fino a raggiungere quello che Coleridge chiamava “immaginazione primaria”.
L’immagine può far vedere ciò che le parole non riescono a fermare?
Forse. Ma non credo che le immagini giungano quando le parole non riescono nel loro compito o che le parole arrivino quando le immagini appaiono inadeguate. Ad esempio, il Museo dell’Innocenza non è l’illustrazione di un romanzo; e il romanzo non è una spiegazione del museo. Secondo me, scritture e icone affrontano la stessa storia e gli stessi sentimenti, ma percorrendo sentieri differenti. Non è una differenza negativa. Si tratta, invece, di forme che stimolano diversi modi di comunicare.
Esiste anche una dimensione lirica, in questo libro. In tante pagine, annota impressioni, affidandosi ad autentici haiku. È la prima volta che sembra comportarsi anche come un poeta.
Sono felice che lei ritenga poetico il mio libro. Condivido il riferimento agli haiku. Quando disegno, talvolta, ci sono forme vuote, che io riempio di colore, di figure, di testi. E il significato finale custodisce un’ambiguità che mi piace.
Ogni pagina di Ricordi di montagne lontane è caratterizzata da una sorta di horror vacui: nessun angolo è libero. Come si spiega questa urgenza di riempire il bianco?
A me piace ritornare su pagine già parzialmente completate. Un grande pittore sa che non c’è bisogno di ritoccare. Io purtroppo non lo sono. Continuo a modificare, a tornare indietro. Non cancellare, per me, è un dono. Un dipinto non finisce mai, ci vorrebbe qualcuno che ti dica: “Ora basta”. In qualche giornata, apro un quaderno e voglio tornare su un foglio. Voglio intervenire ancora e ancora. Preferisco stratificare segni su segni rispetto a quando sono davanti alla pagina bianca. Quando scrivo i romanzi, non ho simili problemi: ritorno, cambio, senza preoccuparmi.
In un passaggio, annuncia un romanzo possibile: la storia di un uomo che sogna quadri e li descrive a parole. L’affascina l’idea di un romanzo in cui inserire anche i suoi dipinti?
«Ci penso da anni, non so quando lo scriverò. In questo periodo lavoro a due romanzi. In uno racconto la storia di un pittore che non smette di fallire. Alla sua morte, un amico raccoglierà quei fallimenti in un libro».