Tuttolibri, 11 novembre 2023
Le lettere di Irene NémirovskY
Olivier PhilipponnatL’Italia, dove a quanto pare Irène Némirovsky non ha mai messo piede, è forse il solo paese al mondo in cui sono state tradotte tutte le sue opere. È anche il primo e il solo in cui venga oggi pubblicata la sua corrispondenza, apparsa in Francia nel 2021. Questa straordinaria devozione si spiega, certo, con lo straordinario lavoro di Adelphi, che ha accolto l’opera di Némirovsky nel proprio catalogo con la stessa cura destinata ai più grandi autori francesi del XX secolo. E tuttavia esiste, tra l’Italia e la persona stessa di Irène Némirovsky, un legame affettivo più misterioso, quasi inspiegabile, che darà all’approccio dei lettori italiani con la sua corrispondenza un carattere d’intimità del tutto eccezionale.Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria degli scrittori che, negli scambi epistolari, si sentono osservati dai posteri. Non pensò mai che un giorno le sue lettere sarebbero giunte ad altri che ai loro destinatari, né che potessero essere incluse nella sua produzione letteraria. Si può dire che queste lettere, che rientrano a pieno titolo nella sua opera, ne rappresentino piuttosto il lato nascosto; lei che pure nutriva grande interesse per la teoria romanzesca, discute poco di tecnica narrativa nella sua corrispondenza. «Quando scrivo un libro» confiderà nel 1938 «provo una sorta di inspiegabile pudore a parlarne, anche con le persone più vicine». Pudore non lontano dall’orgoglio di essere compresa soltanto da sé stessa. Nonostante questa reticenza, l’argomento principale di questi scambi è proprio la sua opera. La si scopre molto attenta alle condizioni di pubblicazione dei suoi libri, che segue con una cura materna. L’umiltà di cui dà prova, il tacito consenso alle critiche, l’apparente libertà che concede ai giornali di modificare a loro piacimento i suoi racconti contrastano con l’entusiasmo e la passione per la scrittura traspaiono invece dai suoi manoscritti. I rapporti epistolari che intrattiene con gli scrittori – Henry Bernstein, Jacques-Émile Blanche, Henri de Régnier, Gabriel Marcel, Jacques Chardonne e altri... – sono occasionali, raramente confidenziali, e sempre caratterizzati da un rispetto delle convenzioni, da un riserbo e da una modestia disarmanti, insaporiti a volte da un pizzico di malizia o da un’ombra di piaggeria, mai offuscati dalla mancanza di sincerità. I dubbi, le paure, le domande che intimamente si pone sono espresse qui senza la rabbia e l’umorismo caratteristiche dei suoi romanzi. La corrispondenza è necessariamente lacunosa: anche se moltissime delle lettere scritte da Irène Némirovsky sono state conservate dai loro destinatari e oggi si possono consultare in diversi fondi archivistici e in alcune collezioni private, lo stesso non si può dire per quelle che lei aveva ricevuto e che furono molto probabilmente distrutte, dopo la guerra, dai nuovi occupanti dell’appartamento parigino in cui la scrittrice le aveva lasciate, nell’aprile 1940, per rifugiarsi insieme alle figlie nel villaggio borgognone di Issy-l’Évêque. Che cosa resta, quindi ? Per gli anni dal 1919 al 1925, il ritratto di una studentessa in gamba, più seria e perseverante di quanto vogliano lasciar credere le sue lettere a Madeleine Avot. A quegli anni di spensieratezza segue un intervallo di tempo, dal 1925 al 1930, di cui non abbiamo alcuna testimonianza epistolare; è il periodo in cui Irène Némirovsky sembra dedicarsi esclusivamente alla vita con Michel Epstein, sposato nel 1926, e alla stesura dei primi romanzi. Violento contrasto con la grandissima notorietà che le procura l’improvviso successo di David Golder (1929), subito preso in considerazione per il premio Goncourt – al quale la scrittrice preferirà rinunciare affinché la sua domanda di naturalizzazione francese sia considerata completamente disinteressata. È l’epoca in cui, per lettera o al telefono, risponde con semplicità alle interviste più o meno serie dei giornali, la scopriamo attenta a non attirarsi critiche – e il sospetto di antisemitismo destato da David Golder non è, secondo lei, così assurdo. Ma gli alterchi più violenti li riserva ai personaggi dei suoi libri, che sembra talvolta usare per ribellarsi alle regole della buona creanza alle quali di solito è vincolata dal rispetto delle convenienze, nonché dalla condizione di straniera, o addirittura di intrusa nella repubblica delle lettere. Sopraggiungono poi la guerra, la sconfitta e il regime di Vichy. Dall’ottobre 1940 al luglio 1942, di lettera in lettera, vediamo Michel Epstein e Irène Némirovsky dibattersi nella morsa di disposizioni legislative antiebraiche che a poco a poco li impoveriscono e fanno lievitare il debito contratto con le edizioni Albin Michel. Il senso e le finalità di tali provvedimenti sono loro incomprensibili, così cercano solo di aggirare la pioggia di vessazioni e di divieti che impediscono a Irène Némirosvky di firmare le sue opere con il suo nome. Le lettere di questo periodo sono più numerose; sono meglio conservate e, data la loro frequenza, rivelano un’angoscia crescente. Il periodo più drammatico della vita di Irène Némirovsky, quello della stesura del suo capolavoro, è anche il meglio documentato da una corrispondenza in cui si esprimono senza inibizioni la collera, l’angoscia e la delusione. Ma anche l’amicizia e la riconoscenza, in una bellissima serie di lettere indirizzate a André Sabatier. Questo legame privilegiato non s’interrompe con l’arresto di Irène Némirovsky il 13 luglio 1942, e neppure con quello, in ottobre, di Michel Epstein, il quale, dopo aver tempestato André Sabatier di lettere e di telegrammi disperati, si arrende al suo destino: raggiungere la moglie. La sua ultima lettera è emblematica: «Forse presto vedrò Irène», scrive poche ore prima della partenza del convoglio numero 42 che lo porterà alla camera a gas. Julie Dumot, divenuta tutrice legale delle sue figlie fino alla loro «collocazione» nel collegio cattolico nel settembre 1945, continua a corrispondere con André Sabatier e con le edizioni Albin Michel. Avremmo forse dovuto eliminare questa «corrispondenza postuma», visto che il 17 agosto 1942 Irène Némirovsky era morta di tifo ad Auschwitz- Birkenau ? Lo avremmo fatto se, prima del ritorno degli ultimi deportati, qualcuno fosse stato a conoscenza della sua sorte. E se Julie Dumot non le fosse servita per così dire da sostituta fino alla partenza per gli Stati Uniti nel 1946, a missione compiuta. Così, abbiamo scelto di chiudere queste Lettere di una vita con le parole disincantate di Albin Michel: «Nonostante tutto, speriamo...», che in realtà non lasciavano quasi alcuna speranza sulla fine dell’incubo. —