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 2023  novembre 11 Sabato calendario

Intervista a Francesco Salvi

Tormentoni non sense («saluto tutti tranne che a illo, perché illo ha fatto appelloso»), canzoni demenziali di successo («c’è da spostare una macchina, è un diesel»), pubblicità inventate («l’amaro Qualunque, l’amaro per l’uomo inutile»), Francesco Salvi è stato una star comica degli anni 80— Drive In e MegaSalviShow su tutti – con la sua ironia asimmetrica, lo sguardo dispari e trasversale. Quanto di più vicino a un folle. Nato a Luino, un posto che non offre niente, «per questo ci sono mille pulsioni che ti spingono ad andare via». 
Chi era «illo»? 
«Mio fratello non voleva saperne del latino, mia madre lo ripeteva con lui ogni giorno – ille illa illud – ma lui si ricordava solo l’ablativo, illo. Così inventavamo un gergo che diventava segreto nel nostro giro di amici. Per dare forza a una frase poi bisogna mettere sempre un’eccezione, quindi saluto tutto tranne che a illo».
Tutti pazzi in famiglia? 
«Una certa follia positiva è sempre albergata in casa. Mio papà era avvocato, era particolare, era uno dei pochi uomini italiani che non guidava, faceva guidare mia mamma senza meta e ci trovavamo sempre spersi in paesi stranieri senza permessi di soggiorno; in Svizzera o in Austria, era epico. Poi non voleva mai far benzina, secondo lui la macchina andava lo stesso e così rimanevamo fermi in mezzo alla campagna. Quanti weekend abbiamo passato io e mio fratello a spingere l’auto». 
È nata da lì «C’è da spostare una macchina»? 
«Forse in modo inconscio... Anni dopo mi trovai a dover fare la sigla musicale al MegaSalvi, eravamo nel garage di una villetta a Vimodrone quando arriva il tipo del piano di sopra incazzato: C’è da spostare una macchina che non posso entrare!». 
È un diesel? 
«Avevo appena cambiato macchina, avevo preso un diesel che allora era la cosa più figa che c’era, io giravo mezza Italia e spendevo la metà. All’epoca non serviva nemmeno dire la marca, dicevi solo: mi son fatto il diesel. Al tipo del piano di sopra chiesi se era un diesel per sapere se era la mia. Ma detto così faceva ridere».
Tutto nasceva sempre dall’improvvisazione? 
«Guardavo quello che mi succedeva intorno e lo esasperavo. Mi colpivano i nomi strani abbinati a una presenza particolare. Ad esempio c’era questo Petese, un tipo alto uno e 90 che solo di fronte era alto uno e 20; Petese sa di accusa e imposizione, lo usavamo per mettere a tacere ogni discussione: Petese!». 
Al «MegaSalvi» giocava da solista, ma il primo successo arrivò a «Drive In», due anni irripetibili, 1985-1987. 
«Drive In è stato uno spartiacque, una parodia dell’America, con le ragazze appariscenti, con il costumino a stelle e strisce, le moto, questa comicità veloce. Un programma di rottura, perché allora la tv era leggermente avanti rispetto al pubblico, ma il pubblico poi ti seguiva». 
Un successo strepitoso... 
«Già due giorni dopo essere andato in onda feci una serata e mi pagarono 10 volte di più rispetto alla volta precedente. Un milione di lire negli anni Ottanta. Un botto».
Tanti comici, come lei, arrivavano dal Derby, il locale milanese del cabaret.
«Eravamo tutti semidisperati. Ricordo una foto con Beppe Viola, Jannacci, Abatantuono, Porcaro, Mauro Di Francesco e Faletti a presentare un programma che non esisteva, che forse avremmo fatto. Jannacci per rincuorarci diceva: dopo ti spiego, ma tanto quando parlava lui non si capiva niente». 
Il primo che ha conosciuto era Abatantuono. Cosa ricorda di quei tempi? 
«I capelli. Tutti avevano tanti capelli». 
C’era anche Antonio Ricci al Derby. 
«Quando era sul palco a un certo punto gli usciva sangue dal naso e doveva scappare. Tutte le volte. E si prendeva pure l’applauso in più di incoraggiamento e commiserazione; la verità è che doveva prendere l’ultimo treno per andare ad Alassio che partiva a mezzanotte. Era incredibile, come se avesse un pulsantino nel corpo che lo faceva sanguinare». 
Leggende su «Drive In»? 
«Che Berlusconi veniva a trovare le ragazze, ma non è vero. Gli studi erano in periferia a Bande Nere prima, poi a Quarto Oggiaro, una zonaccia; la prima volta che sono andato lì mi hanno rubato l’autoradio, la seconda volta che ci sono tornato l’ho rubata io». 
Gianfranco D’Angelo? 
«Tranquillo, educatissimo, ma diversissimo sul palco e giù dal palco. Nelle registrazioni era scatenato, nella vita era di una tranquillità spaventosa. Ricordo che aveva uno dei primi telefonini, lo aveva sempre all’orecchio ma stava sempre in silenzio, forse ascoltava la segreteria telefonica: non parlava mai, ogni tanto si addormentava e dovevamo svegliarlo la mattina dopo». 
Greggio?
«Faceva vari personaggi sempre ispirati ad attività truffaldine, da incantatore di serpenti – Verdiglione, l’asta tosta —, sempre al centro di grandi imbrogli. Lui è così. Se non avesse fatto il comico sarebbe stato il signor Aiazzone». 
Beruschi? 
«Era la vittima preferita degli scherzi. Aveva una paura pazzesca dei cani. Una volta, in inverno, faceva un freddo cane, a Beruschi andava bene che facesse freddo, ma non che fosse cane... io su istigazione di Ricci gli misi il paltò sul cane lupo che c’era fuori dal ristorante. Tornò a casa senza e per due giorni è stato a letto con la febbre».
Tra i suoi personaggi a «Drive In» c’era il camionista con il torace glabro e una scritta sul petto: «peli». 
«In realtà volevo proporre la guardia giurata, ma la stava già preparando Faletti e io non lo sapevo. Ero disperato, dovevo inventarmi un personaggio al volo mentre andavo a una riunione con Ricci: faccio un giro largo e passo da piazza Lima, lì vedo un camionista che si accapiglia con uno in macchina. Sono arrivato alla riunione e avevo il repertorio fatto. Sono nato con il volante in mano, è stato un parto difficile». 
Il «MegaSalvi» non ebbe un seguito. 
«Quando una cosa funziona arrivano funzionari che vogliono metterci mano e rovinano tutto, alcuni si adattano, io non sono il tipo». 
Si è sentito un incompreso? 
«No, anzi. Purtroppo mi hanno compreso troppo».