Il Post, 10 novembre 2023
Piccolo manuale dei titoli di stato
L’Italia ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo, pari a 2.840 miliardi di euro e oltre il 140 per cento del Prodotto Interno Lordo. Una cifra simile può apparire astratta e difficile da immaginare, ma dietro a questa mole di debito ci sono tanti creditori, che sono soggetti concreti: banche centrali, banche commerciali, fondi d’investimento italiani e stranieri e anche persone comuni che hanno deciso di investire i loro risparmi. Ognuno di questi creditori detiene un pezzetto del debito pubblico tramite i cosiddetti titoli di Stato, cioè strumenti finanziari con cui lo Stato si fa prestare dei soldi per finanziare la sua spesa pubblica, e su cui paga degli interessi; allo stesso tempo, chi glieli presta fa un investimento che gli consente di ottenere dei guadagni.
Se ne parla spesso per la loro centralità nel funzionamento di un paese indebitato come l’Italia, ma anche perché il governo di Giorgia Meloni sta introducendo misure per incentivare le famiglie a investire i loro risparmi nel debito italiano, quindi appunto comprando titoli di Stato. E lo fa da una parte per coerenza con la tendenza nazionalista propria di questo governo, dall’altra perché generalmente si ritiene che se il debito pubblico di un paese è detenuto da risparmiatori privati, e non da grosse banche o fondi d’investimento, questo sia garanzia di maggiore stabilità.
PubblicitàPer fare un esempio recente, nel disegno di legge di bilancio è stata inserita una norma per cui i titoli di Stato italiani fino al valore complessivo di 50 mila euro non vadano più considerati nel calcolo dell’ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente), un parametro che serve a regolare l’accesso ad alcune prestazioni e a calcolare gli incentivi che sono rivolti solamente a persone e famiglie che hanno un valore inferiore a una certa soglia. Serve per esempio per l’accesso ai servizi per l’infanzia, come l’asilo nido o l’assegno per i figli a carico, o per fare domanda per i sussidi. Secondo alcuni esperti decidere di escludere i titoli di Stato dal calcolo dell’ISEE genera problemi di iniquità e tenderà a favorire l’accesso ai servizi pubblici per le famiglie con un reddito medio, a discapito di quelle più povere.
In sintesi
I titoli di stato sono strumenti finanziari con cui gli Stati si fanno prestare soldi e che alimentano il debito pubblico. A differenza di un titolo qualsiasi, come un’obbligazione di un’azienda quotata in borsa, sono emessi da enti pubblici: tipicamente sono considerati meno rischiosi dei titoli delle aziende private, perché si presuppone che gli Stati abbiano meno probabilità di fallire, e che quindi difficilmente chi ha comprato un titolo di Stato perderà interamente la somma investita. Chiunque li può comprare: fondi, banche, risparmiatori grandi e piccoli.
Come ogni strumento finanziario anche i titoli di Stato garantiscono un guadagno a chi li compra, espresso in termini di tasso di interesse. Rispondono quindi a una normale logica di investimento in borsa: semplificando, ottenere un profitto dal prestito di denaro attraverso l’acquisto di obbligazioni e titoli di Stato (o dall’entrata nel capitale di qualche azienda comprando azioni). L’Italia quindi vende i titoli costantemente e a una certa cifra, promettendo di pagare gli interessi al compratore e rimborsarli entro una certa data. La data del rimborso è la scadenza dei titoli, a cui peraltro viene riconosciuto un regime fiscale di favore: quando paga gli interessi lo Stato detrae un’imposta del 12,5 per cento, mentre per le altre rendite finanziare l’aliquota è del 26 per cento, poco più del doppio.
Non c’è un solo titolo
Il ministero dell’Economia ha creato vari tipi di titoli di Stato per renderli appetibili sul mercato e adatti alle esigenze più diverse. Si differenziano nelle scadenze, nelle modalità di pagamento degli interessi, nel fatto di essere indicizzati o meno all’inflazione, tra le altre cose.
Per esempio per chi vuole investire il proprio denaro per un periodo di tempo molto limitato esistono i BOT, i Buoni Ordinari del Tesoro, che hanno una scadenza al massimo di un anno: il rendimento è dato dalla differenza tra il prezzo di acquisto e il valore che lo Stato restituisce alla fine del periodo, ossia il valore nominale. Se si compra un BOT a 97 euro e lo stato alla fine del periodo ne restituisce 100, il guadagno sarà di 3 euro.
Ci sono poi titoli di Stato che garantiscono un rendimento periodico, chiamato cedola, che viene pagato a cadenza regolare prima della scadenza. Sono i BTP, ossia i Buoni del Tesoro Poliennali, che hanno una durata dai 3 ai 50 anni. Garantiscono pagamenti semestrali fissi a seconda del tasso di interesse con cui sono emessi inizialmente. Semplificando e approssimando molto i calcoli per facilitare la comprensione, un BTP con scadenza a 10 anni, emesso con un tasso di interesse annuale del 4 per cento e con un valore di 100 euro, garantirà per dieci anni una cedola semestrale di 2 euro, oltre che il rimborso di 100 euro alla scadenza.
I BOT e i BTP sono i titoli di Stato più tradizionali. Sono due modelli di base, da cui poi il ministero dell’Economia ha creato nel tempo alcune varianti per rendere gli investimenti in titoli di Stato attrattivi a seconda anche del periodo storico. Il meccanismo di base però è sempre lo stesso per tutti: si comprano titoli versando soldi allo Stato, che saranno poi restituiti alla scadenza con gli interessi.
Ci sono per esempio i titoli di Stato legati all’inflazione, i BTP€i, simili ai BTP le cui cedole e il cui rimborso finale sono però indicizzati all’inflazione europea, o il BTP Italia, che è invece indicizzato all’inflazione italiana: significa che se un anno l’inflazione in Italia è del 4 per cento, anche la cedola del titolo indicizzato aumenterà del 4 per cento.
All’inizio della pandemia da coronavirus il ministero dell’Economia creò i BTP Futura, che avevano come obiettivo quello di raccogliere denaro per sostenere l’economia durante la crisi economica innescata dalla pandemia. Di recente sono stati creati anche i BTP Valore, che possono essere comprati solo dai piccoli risparmiatori. Prevedono una cedola periodica e un premio nel caso il titolo sia tenuto fino alla scadenza, circostanza che riguarda più il risparmiatore privato, mentre gli investitori professionali tendono a non farlo.
Come e dove si comprano
I titoli di Stato possono essere comprati in due modi. Il primo è sul cosiddetto mercato primario, solamente nel momento dell’emissione dei titoli: il ministero dell’Economia li propone agli acquirenti tramite aste che cura la Banca d’Italia e a cui bisogna registrarsi indicando il valore dei titoli che si intende acquistare e a quale prezzo. A queste aste possono partecipare solo investitori autorizzati, come fondi di investimento e banche: se un persona vuole comprare titoli di Stato sul mercato primario deve dare mandato alla propria banca, che farà un’offerta per suo conto, o può farlo tramite la propria piattaforma di home banking se abilitata al trading. Gli acquisti devono essere di almeno 1.000 euro.
– Leggi anche: Come funziona un’asta dei BTP
Il secondo modo con cui si possono comprare titoli di Stato è sul mercato secondario, cioè in borsa attraverso il MOT, il Mercato Telematico delle Obbligazioni e dei Titoli di Stato, che è gestito da Borsa Italiana. È un portale online a cui si può accedere sempre tramite un intermediario finanziario, la differenza è che sul mercato secondario si possono acquistare i titoli già emessi e in circolazione, non solamente in un momento specifico ma ogni giorno in cui la borsa è aperta. Anche in questo caso l’importo minimo per l’offerta è di 1.000 euro.
È importante sapere che se si comprano titoli di Stato non si è obbligati a tenerli fino alla scadenza, e questo vale per qualsiasi titolo negoziabile in borsa: si può venderlo in qualsiasi momento al prezzo di mercato e rientrare in possesso della liquidità investita (che però può essere superiore o inferiore alla somma di partenza, a seconda dell’andamento del mercato).
I rischi
I titoli di Stato funzionano come un qualunque strumento di investimento, ma sono considerati mediamente più sicuri degli altri titoli a meno di paesi particolari a rischio di fallimento. Come nel caso dell’Argentina, che nel 2001 fallì e rinunciò a pagare oltre 100 miliardi di dollari dei suoi titoli di Stato, i cosiddetti tango bond.
Nel caso di paesi avanzati i rischi legati a questi investimenti sono legati principalmente alle oscillazioni dei prezzi nel tempo, comunque piuttosto contenute in tempi normali rispetto agli altri titoli. Il rischio che alla scadenza il capitale non sarà restituito viene ritenuto invece basso.
Come sempre succede gli investimenti più sicuri permettono anche di guadagnare meno, mentre gli investimenti che permettono di guadagnare di più grazie a interessi più alti comportano un rischio maggiore di non veder tornare i soldi investiti. In altre parole, se sei uno Stato e vuoi convincere qualcuno a prestarti i suoi soldi, dovrai offrire un rendimento (cioè il guadagno ottenuto con l’interesse) che sia giudicato conveniente dagli investitori: se secondo chi investe c’è il rischio che tu non restituisca quei soldi, allora per convincerli dovrai offrire interessi più alti.
Per quanto il suo fallimento sia considerato uno scenario improbabile, l’Italia è considerato uno dei paesi europei più a rischio proprio per l’enormità del suo debito pubblico. Tra i paesi europei è quindi uno di quelli che offre gli interessi più alti sul suo debito. Il famigerato “spread” definisce la differenza di rendimento tra i titoli di Stato della Germania, che è il paese ritenuto più solido e affidabile e che fa da termine di paragone, e i titoli di stato di un altro paese, in questo caso l’Italia. Più alto è lo spread, più quel paese sarà percepito rischioso rispetto alla Germania, a cui è solitamente attribuito un rischio vicino allo zero.
– Leggi anche: Dobbiamo tornare a preoccuparci dello spread?
Chi ce li ha, questi titoli?
Essendo quindi in qualche modo più sicuri degli altri strumenti per investire, i titoli di Stato sono considerati adatti a persone comuni e famiglie che non investono per professione, ma magari solo per far fruttare i propri risparmi. Nonostante questo da anni la quota di risparmiatori privati sul totale che detiene il debito pubblico è più bassa rispetto a una ventina di anni fa, quando era intorno al 16 per cento: attualmente è solo il 9 per cento, ma in crescita da tre anni. La quota più grande è delle banche centrali: la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia ne detengono il 35 per cento circa.